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Fra piccole iene: il cinismo dell’età adulta nel disco più scuro degli Afterhours

Gli Afterhours che nel 2002 pubblicavano “Quello che non c’è” erano una band entrata come uno tsunami nel nuovo millennio: un cambio di pelle drammatico, così come le nuove consapevolezze filtrate dalla penna di Manuel Agnelli. La rabbia giovanile degli anni ’90 e di dischi come “Hai paura del buio?” (1997) e “Non è per sempre” (1999) che diventa disillusione, consapevolezza di un dado ormai − forse definitivamente − tratto, pensieri su pensieri che si fanno ammorbanti e che impregnano le vene sperimentali di un album che rappresenta ancora oggi una vetta compositiva mai più raggiunta da Agnelli e soci. Come andare avanti, una volta assunte quelle consapevolezze di cui sopra e con la band ormai indirizzata verso un’altra dimensione musicale?

La risposta gli Afterhours la trovano nell’amico Greg Dulli, anima e corpo degli Afghan Whigs, che viene chiamato a lavorare con la band alla realizzazione di quello che sarà il loro ottavo lavoro in studio (comprendendo anche gli esordi in lingua inglese, quando gli Afterhours erano davvero altri Afterhours). A cavallo tra il Maggio e il Giugno del 2004 la band si chiude in studio, tra Catania e Milano, per registrare un album che risente in pieno tanto della più recente verve letteraria di Agnelli quanto dell’influenza di Dulli. Ballate per piccole iene esce il 15 Aprile dell’anno seguente, dopo il lavoro al missaggio di un altro amico illustre, John Parish, ed è chiaro come si tratti di un ennesimo cambio di rotta per gli Afterhours. L’album è scuro, forgiato in vene blueseggiate e groovose che è facile ricondurre a Dulli, un rock tendenzialmente più classico rispetto al passato degli Afterhours che, anziché farsi innocuo come si sarebbe potuto immaginare, diventa la minimale e necessaria stratificazione sonora che sta sotto le parole di Manuel Agnelli, melodie apparentemente dolci ma affilate come lame, che tagliano la pelle e poi la carne facendoti sanguinare. E le iene lì tutt’intorno, pronte a banchettare tra una risata e l’altra.

E infatti la disillusione e la consapevolezza che avevano già sferzato “Quello che non c’è”, in “Ballate per piccole iene” diventano tremendamente crude e cinicamente dirette, senza troppi giri di parole Agnelli ci sputa in faccia quanto il mondo che vede intorno a lui, agli altri, persino noi stessi se ci fermassimo un attimo ad analizzarci, sia una giungla in cui il più forte mangia il più debole, in cui l’obiettivo diventa non finire mai per essere quel debole, in cui nessuno muove un dito per l’altro se non mosso a sua volta da un puro e semplice spirito di convenienza, dove persino in amore viene applicato questo stesso malato e annichilente processo comportamentale. E la forza per reagire e provare a migliorare la situazione, quella non c’è più, inghiottita dalla stanchezza e dall’inesorabile passare del tempo.

Tutto ciò fa di “Ballate per piccole iene” anche l’album più internazionale mai concepito dagli Afterhours che, consapevoli di ciò, a un anno di distanza ne pubblicano una nuova versione con i testi in inglese, “Ballads For Little Hyenas”, proprio nel tentativo di fare breccia oltreoceano, con tanto di lungo tour americano a supporto. Le critiche − legittime, aggiungiamo noi − sollevate da più parti riguardo quell’operazione bolleranno come trascurabile l’estemporaneo ritorno di Agnelli alla lingua inglese, ma non toglieranno nulla alla rilevanza dell’album originale, un lavoro cresciuto nel tempo che è lo spaccato tristemente onesto di un esatto passaggio di vita che tutti, prima o poi, si trovano a dover attraversare.

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