Nel 1995 gli Smashing Pumpkins avevano pubblicato il mastodontico doppio album “Mellon Collie And The Infinite Sadness”, una fatica immane tanto realizzativa quanto promozionale, visto anche il lunghissimo ed estenuante tour mondiale che aveva contribuito a confermare i Pumpkins nell’Olimpo degli anni Novanta (ma che per Corgan si era rivelato a dir poco impegnativo emotivamente, vista la scomparsa della madre proprio fra le date del tour). Billy Corgan e i suoi erano così attesi al varco di un quarto album che avrebbe dovuto reggere il confronto di un ingombrante predecessore, un disco che si era guadagnato i gradi di classico già dal primo giorno sugli scaffali dei negozi. Ma parliamoci chiaro: nessun nuovo lavoro avrebbe potuto competere con l’annichilente impatto ottenuto da “Mellon Collie”, con la folle e visionaria presunzione di un doppio pieno zeppo di capolavori, concettualmente complesso e articolato, definitiva deflagrazione di una band eccezionale al massimo della propria forma.
E infatti le cose iniziano a prendere una piega storta, come spesso accaduto nella storia della band (circostanza che fa un po’ parte del fascino decadente che ha sempre avuto la formazione americana). Come dicevamo muore Martha, la madre di Billy, ma come se non bastasse Corgan si ritrova a dover affrontare anche un’altra dolorosa “perdita”, quella dell’amico di una vita Jimmy Chamberlin: il batterista viene estromesso dalla band a causa dei suoi continui e mai risolti problemi di dipendenza da alcol e droghe, una processo di autodistruzione senza ritorno che culmina con l’overdose mortale di Jonathan Melvoin, tastierista live degli Smashing Pumpkins e compagno di abusi di Chamberlin. Troppo per poterci passare nuovamente sopra. Serve riposo, Corgan deve metabolizzare la scomparsa della madre e capire che farne di una band che sta letteralmente affogando: le prime incisioni approntate per il nuovo disco vengono così cestinate e Corgan decide di dare una svolta al sound della sua creatura, una svolta che passa dalla scelta di non sostituire realmente Chamberlin.
Alle batterie di Adore lavorano tre diversi musicisti (Matt Walker, Matt Cameron e Joey Waronker), ma è l’utilizzo della drum machine la vera novità del disco, un elemento che marchia a fuoco sotto ogni punto di vista il risultato finale voluto e cercato da Billy. “Adore” risente inevitabilmente degli sconvolgimenti nella vita di Corgan, alla madre dedica la struggente For Martha, ma tutto il disco lascia quasi completamente dietro di sé la psichedelia e le influenze hard rock degli esordi, l’alternative marcatamente nineties di “Siamese Dream” (1993) e l’epopea orchestrale, romantica e barocca di “Mellon Collie”, per stazionare invece su sonorità eighties immerse in una tristezza senza conforto, tra elucubrazioni acustiche (To Sheila, Once Upon A Time), una darkwave spinta (Ava Adore, Daphne Descends) e divagazioni industrial (Appels + Oranjes), con i suoni sintetici a farla largamente da padroni per tutto il corso di un album sconvolgente alla luce di ciò che erano stati gli Smashing Pumpkins fino a quel momento.
A fare il paio con la tracklist c’è poi il concept visivo, con Billy Corgan, James Iha e D’arcy Wretzky ritratti emaciati e vestiti di nero e la modella Amy Wesson immortalata in vesti gotiche da Yelena Yemchuk (fotografa che si occuperà dell’intero artwork del disco, ai tempi compagna di vita dello stesso Billy), azzeccatissima trasposizione dell’immaginario dipinto tra le trame di un album dannatamente cupo. “Adore”, ambiziosamente presentato come un album elettronico, lascerà perplesso lo zoccolo duro dei fan degli Smashing Pumpkins (il risultato sarà che le vendite non andranno granché bene, quantomeno non come si aspettavano casa discografica e band), ma segna allo stesso tempo alcuni degli apici compositivi e lirici (basti citare il singolo Perfect) di un Corgan che, svestitosi degli strati di chitarre e immersosi nel nero che più nero non si può, si mostra definitivamente disposto a non nascondere più le proprie debolezze.