Se vi chiedessero, oggi, di elencare una decina di album che hanno segnato in modo indelebile la storia del rock, siamo sicuri che salterebbe fuori almeno uno − quale dipende dalle preferenze personali − tra “The Stooges” (1969) e “Fun House” (1970), i primi due lavori marchiati a fuoco da quella macchina del degrado chiamata Stooges. Ma più probabilmente li inserireste entrambi nella lista, peraltro a giusto titolo. Eppure quei due dischi, talmente fondanti e fondamentali per ciò che è venuto dopo, all’epoca della loro uscita non riscossero chissà quali consensi: sporchi, malati, rumorosi, eccessivi. Troppo, troppo tutto. Così tanto che, quantomeno ufficialmente, la band si convinse a sciogliersi dopo averli pubblicati, vista anche la diversità di vedute sul modo in cui proseguire una carriera che stentava a decollare. Ufficiosamente, però, le motivazioni che portarono Iggy, i fratelli Ron e Scott Asheton e Dave Alexander a dire basta stavano da un’altra parte, in quella vita a dir poco sregolata (ben rappresentata dalla “casa del divertimento” che aveva dato il titolo al loro secondo disco, ovvero la fattoria adibita a sale prove nella quale suonavano, sì, ma dove soprattutto ingollavano qualsiasi cosa gli venisse a tiro) che aveva raggiunto quasi un punto di non ritorno. Troppo per andare avanti, troppo per consentirgli di mettere testa in un progetto anche marginalmente strutturato.
A rimettere in piedi la baracca, seppur momentaneamente, ci pensa David Bowie, che giusto pochi mesi prima aveva compiuto un altro mezzo miracolo ripigliando per i capelli Lou Reed e contribuendo in maniera decisiva al suo “Transformer” (1972). Bowie chiama Iggy a Londra, gli chiede di riprovarci con la band, lo aiuta a trovare un contratto discografico, si offre di produrgli un disco (offerta rispedita al mittente, gli verrà però consentito di mixarlo). Iggy rivoluziona gli Stooges: in primis non saranno più gli Stooges bensì Iggy & The Stooges, giusto per mettere le cose in chiaro su chi comandava all’interno della band. Dave Alexander viene fatto fuori e il posto al basso viene preso da Ron Asheton, mentre la chitarra passa a James Williamson, che aveva già suonato con gli Stooges dal vivo. Insomma, un folle rimpasto (soprattutto nel passaggio di Ron dalla chitarra al basso) che avrebbe potuto far implodere tutto.
E infatti nella sostanza cambia poco rispetto a pregi e difetti che avevano caratterizzato gli Stooges fino a quel momento: la band tira fuori dal cilindro un’altra manciata di sporcizia fatta musica, tanto che inizialmente la Columbia si rifiuta di pubblicare il disco. L’accordo viene trovato grazie alla mediazione di Bowie: David mixa l’album (quel poco che c’era da mixare, visto che le incisioni erano state realizzate in modo a dir poco “basico”, su pochissime piste) e gli Stooges acconsentono ad inserire nella tracklist un paio di ballate (o presunte tali) per alleggerire un po’ i due lati del disco: Gimme Danger e I Need Somebody. Il 7 Febbraio del 1973 esce Raw Power e per gli Stooges è ancora una volta notte fonda, con il disco che subisce la stessa (s)fortuna dei due predecessori.
Dicevamo di pregi e difetti degli Stooges, e basta ascoltare la Search And Destroy che apre il disco per rendersi conto di come l’animalesca verve di Iggy non avesse perso neanche un grammo della sua dirompenza, così come l’avvicendamento tra Asheton e Williamson alla chitarra non sortisce chissà quale alleggerimento. “Raw Power” è caos allo stato puro, sputa sesso e depravazione da ogni nota e da ogni parola (Your Pretty Face Is Going To Hell e Penetration sono un vero manifesto), è brutale e oltraggioso anche quando la forma è quella di un marcissimo boogie (Shake Appeal), è garage sporcato di blues da togliere il fiato (la title track, oppure Death Trip). È essenzialmente punk prima del punk, la terza e definitiva prova di come gli Stooges ed Iggy Pop abbiano davvero dato il La al cataclisma avvenuto poi di lì a qualche anno.