Home RETROSPETTIVE Loveless e il rumore totalizzante dei My Bloody Valentine

Loveless e il rumore totalizzante dei My Bloody Valentine

Non sono troppi gli album che hanno letteralmente cambiato le carte in tavola come Loveless, il secondo lavoro sulla lunga distanza dei My Bloody Valentine. E il disco pubblicato nel 1991 da Kevin Shields e soci lo fece senza mezzi termini, in modo totalizzante, tanto da divenire fin da subito il faro di tutti coloro i quali trovavano e trovano ancora nel rumore assordante il più dolce dei richiami. “Loveless” però non fu certo un disco dalla realizzazione immediata, nonostante Shields avesse ben chiaro in mente dove andare a parare: una marea di produttori e tecnici del suono si assecondarono nella stanza dei bottoni senza mai soddisfare del tutto le maniacali visioni di Shields, cosicché i tempi per la messa a punto del disco si dilatarono così tanto − parallelamente al conto finale − da portare quasi sul lastrico la Creation Records, cui era stato promesso un rapido seguito di “Isn’t Anything”, il primo album pubblicato dai My Bloody Valentine nel 1988.

In quell’esordio la band aveva già mostrato le basi delle propria ricerca sonora, ma Shields voleva di più, voleva che i maestri Jesus And Mary Chain venissero letteralmente soppiantati nel loro ruolo di ammazza-melodie, voleva che i Velvet Underground più sporchi rivivessero nelle trame delle sue chitarre, voleva al contempo che la dolcezza di certi suoni portati in alto dai Cocteau Twins continuasse comunque a trapelare dal fondo noise dei suoi pezzi, un’estasi sonora che gli risuonava in testa e che doveva “semplicemente” essere trasposta nelle nuove incisioni della sua band. Shields si immerge così al 101% nella produzione di “Loveless”, diventa un tutt’uno con le macchine dello studio di registrazione (in realtà molti, moltissimi studi di registrazione diversi), non ascolta i suggerimenti di nessuno, convince persino i compagni a far suonare a lui stesso le loro parti. In questi casi, con un personaggio così sui generis al timone, le opzioni possibili sono solo due, entrambe assolute: un fallimento o un capolavoro. “Loveless” rientrò inevitabilmente nella seconda delle casistiche.

Gli innumerevoli strati di chitarre sovrapposti dell’opener Only Shallow sono il manifesto dei My Bloody Valentine e dello shoegaze tutto, feedback profondissimi da fine del mondo, la voce di Bilinda Butcher che scarnifica a suon di baci il rumore per farsi strada verso la superficie del brano, la sezione ritmica sintetica e fredda come l’Alaska. Ma è tutto il disco a essere un annichilente viaggio in una dolcezza dolorosa e conclusiva, quella dall’incedere velvetiano di Loomer, quella della inebriante rumoristica di To Here Knows When, quella dell’elettricità di When You Sleep e Come In Alone, abbagliante e luminosa la prima, psichedelica la seconda, fino a quella sciamanica dei sette minuti della conclusiva Soon, vicina per concetto al lavoro svolto proprio quello stesso anno dai Primal Scream dell’amico Bobby Gillespie.

Con “Loveless” la breve parabola − quantomeno quella iniziale − dei My Bloody Valentine divenne perfetta giungendo a definitivo compimento, così tanto da portare poi la band a uno iato lunghissimo, un disco che lasciò però un’eredità così mastodontica da essere ancora oggi oggetto di un revivalismo sfrenato e spesso posticcio. La Creation, che se la vide brutta per l’aver scelto di supportare le pretese di Shields, non trasse affatto giovamento economico dal disco ma dal punto di vista dell’immagine fu per loro fondamentale aver licenziato un album come il secondo dei My Bloody Valentine. Di lì a poco c’avrebbe poi pensato il fenomeno Oasis a rimettere in sesto i conti dell’etichetta, con buona pace di Alan McGee (il boss della Creation) che si ritrovò così in catalogo una gemma di rara bellezza e rilevanza. Ma questa è un’altra storia.