“You suck my blood like a leech / You break the law and you breach / Screw my brain till it hurts / You’ve taken all my money / And you want more” (da “Death On Two Legs”)
Inizia così uno dei più grandiosi, eccessivi, ambiziosi album rock della storia. Ma che avrà il signor Bulsara in arte Mercury da essere così incazzato, al punto da lasciare un po’ basiti i suoi compari? I Queen, forti di tre album sempre più a fuoco, hanno finalmente sfondato: il singolo “Killer Queen” non solo raggiunge il secondo posto nella classifica inglese, ma sfonda persino in America, con un dodicesimo posto non da poco per una band così sfacciatamente inglese; la stessa identica sorte in classifica toccò all’album “Sheer Heart Attack” (1974). Ma i Queen erano clamorosamente al verde: a causa di un contratto capestro firmato con gli studios del loro manager degli esordi (Norman Sheffield), i ragazzi londinesi non vedevano quasi neanche un penny dei guadagni ed erano messi a stipendio dai Trident Studios per la ricca cifra di £ 60 alla settimana, rischiando la bancarotta e di dover per sempre sciogliere la band.
La questione si risolse con un cambio di management, l’adorabile e capace John Reid (già con Elton John) che prende il posto di Sheffield, che dice alla band “voi preoccupatevi di fare il miglior dannato album possibile, io mi occupo delle questioni legali”, e i Queen obbediscono. E al vecchio Fred non piace essere fregato, quindi porta, tra i primi pezzi scritti, questa ferocissima invettiva contro “il morto in piedi”, che sarebbe proprio Sheffield, che lasciò di stucco i tre compari della band. Ma, nonostante i non insoliti litigi in studio di registrazione, la regola non scritta era che l’autore della canzone ne sceglieva la sorte; e così il “povero” Sheffield si ritrova in apertura di uno dei dischi più amati di sempre come il cattivo di turno (cercò di girarla a suo favore, pubblicando nel 2013 “Vita su due gambe”, autobiografia nella quale cerca di scagionarsi dalle colpe attribuitegli).
Sarebbe stato un disastro per la storia della musica rock se i Queen avessero dovuto sciogliersi, perché non avremmo avuto quest’album magistrale e quello che è considerato da tanti come il più grande pezzo rock di sempre. Da sempre restii a limitarsi, qui i Queen si lasciano davvero andare al più glorioso degli eccessi: hard rock, progressive, pop, music hall, dixieland jazz, Bohemian Rhapsody e persino lo stramaledetto inno inglese arrangiato per la Red Special di Brian May. Certo Bohemian Rhapsody non ha bisogno di presentazioni, e le storie sono tutte note: la miriade di sovraincisioni di armonie vocali che resero il nastro trasparente, le lotte con l’etichetta che non voleva un singolo di quasi sei minuti, il deejay Kenny Everett (poi amico, e dopo ancora amante, di Freddie) che passa continuamente la canzone su Capital Radio e la conseguente ondata di chiamate che domandava che diavolo fosse quella canzone folle, il primo posto in classifica, il video musicale che convince le etichette discografiche a usarlo di lì in poi come importante mezzo promozionale, il ritorno in auge con “Wayne’s World”… potremmo continuare ancora per un pezzo, ma con una canzone del genere la cosa importante è solo ascoltarla e sentire che la folle visione di Freddie è rimasta tutt’oggi di enorme impatto, che quel suo testo inusuale intriso di un velo di nichilismo e di follia (“Galileo! Galileo! Galileo Figaro! Magnifico!”) sia cantato a squarciagola da tantissima gente.
Ma A Night At The Opera – chiamato così in tributo a uno dei film dei fratelli Marx – non è solo BoRap, neanche per idea. “A Night At The Opera” è il compimento di una trilogia di dischi perfetti che farà dei Queen dei monarchi assoluti, proprio come demandava il loro nome pomposo. Una gemma come The Prophet’s Song, anch’essa frutto di sperimentazione in studio, non è pari a BoRap, ma ci va assai vicino. E il capolavoro pop di John Deacon, You’re My Best Friend, con il suo riff di Wurlitzer (suonato dal bassista perché Mercury si rifiutava di suonare qualcosa di così “metallico e orribile”), prosegue la serie di singoli pop perfetti iniziata con “Killer Queen” di Mercury l’anno prima. Un’altalena di emozioni, un caleidoscopio di generi, tenuto insieme dalla totale serietà della band e contemporaneamente dal loro non prendersi sul serio neanche per un secondo.
Sono passati quarantacinque anni da quando “A Night At The Opera” vide la luce e ascoltarlo oggi fa pensare a quanto il mondo del rock abbia perso quell’ambizione di fare qualcosa di diverso, nonostante i mezzi di produzione oggi siano praticamente alla portata di tutti (mentre questo gingillino fu ai suoi tempi l’album più costoso mai realizzato), e a quanto manchi quella assoluta follia nel camminare sul filo del ridicolo, in equilibrio, senza rete, senza paura che qualcuno ti derida, come del resto ai Queen è capitato spesso. In questo anniversario potrebbe essere utile a qualcuna (non diciamo tutte, per carità) delle nuove leve del rock ascoltarlo e prendere esempio: scalate la montagna, il Dio Mercurio vi sorreggerà nella salita.