Nel 1994 Trent Reznor s’era inscindibilmente lasciato avviluppare da una spirale di autodistruzione e nichilismo, concentrandone l’essenza nel seminale “The Downward Spiral”. Quel disco gli era valso tutto, le copertine delle riviste, i piazzamenti nelle classifiche e una marea di “lavoro extra”: tra le altre cose ci fu l’iniziazione al mondo del cinema, con la partecipazione alle soundtrack de “Il Corvo”, “Strade perdute” e “Natural Born Killers”; e poi la nuova veste di produttore per altri oltre che per se stesso, con il significativo apporto a quel caposaldo degli anni ’90 che fu “Antichrist Superstar” dell’amico Marilyn Manson. In pratica una primordiale scultura di ciò che Reznor sarebbe diventato di lì in poi. Soprattutto, il disco aveva portato i Nine Inch Nails in giro per il mondo per un paio d’anni, impegnandoli in quel “Self Destruct Tour” che si sarebbe rivelato un’esperienza devastante sotto ogni possibile punto di vista, un’esperienza che finì per azzerare Trent come essere umano oltre che come musicista.
Insomma, seguendo gli eventi, lasciandosi trasportare da una spirale che stavolta credeva avesse un senso inverso rispetto a quello di “The Downward Spiral”, Reznor si era trasformato in una di quelle rockstar con cui credeva di avere ben poco da spartire, tutte lustrini, mondanità e conoscenze altolocate. La cosa non lo rendeva affatto fiero di se stesso, tanto da portarlo ad affogare nelle acque torbide di una depressione che affondava le sue radici in una profonda insoddisfazione umana e professionale. In più, c’era un nuovo album che prima o poi avrebbe dovuto scrivere e suonare, pur non avendone alcuna voglia. Ma la scrittura per Reznor non era mai stata solo una questione commerciale, di mera e semplice produzione in catena di montaggio. Decide dunque di chiudersi – o meglio, ci si chiude su consiglio di Rick Rubin – in una casa sulle scogliere del Big Sur californiano, in totale isolamento e seduto per gran parte della giornata al pianoforte. Prendono così vita le melodie e le idee che sarebbero confluite in The Fragile, l’atteso Halo 14 dei Nine Inch Nails.
Registrato ai Nothing Studios di New Orleans con la collaborazione, tra gli altri, di Alan Moulder, Dr. Dre e Bob Ezrin, l’album subisce una gestazione lunghissima, frutto del maniacale controllo di Reznor su ogni singola nota e ogni singolo rumore inserito nelle decine di tracce sovrapposte di cui consta il disco. Ciò che ne viene fuori nel Settembre del ’99, cinque anni dopo “The Downward Spiral”, è un monolite di ventitré tracce suddivise in due lati, “Left” e “Right”, che testimonia già nel formato quanto Reznor volesse tirarsi fuori da processi creativi standardizzati (per dirne una, l’anno seguente i Radiohead avrebbero “scisso” il loro lavoro uscendo prima con “Kid A” e solo dopo con “Amnesiac”, pur essendo i due album frutto delle stesse session). Con la stella polare del più grande doppio della storia, quel “The Wall” dei Pink Floyd al quale aveva lavorato proprio Ezrin e cui s’ispira per la grandissima varietà al suo interno, Reznor partorisce un miscuglio di spunti e traccianti sonori, in cui acustica ed elettronica, chitarre e sintetizzatori, drum machine e rumorismi vari ed eventuali, contribuiscono nella stessa percentuale all’attraversamento di un oceano scurissimo e denso, viscoso come un gel.
La carica più classicamente industrial di “Pretty Hate Machine” (1989), già in parte attenuata in “The Downward Spiral”, subisce qui un ulteriore imbastardimento con svariati passaggi, vedi The Day The World Went Away, The Mark Has Been Made o Complication, che hanno tutte le sembianze dell’accompagnamento per immagini. Il pianoforte usato nel Big Sur è sempre alla base delle composizioni, non soltanto quando evidente come nelle strumentali La Mer e The Frail, con quest’ultima che lancia la volata a The Wretched e We’re In This Together, tre tracce in sequenza unite da un unico filo conduttore come fossero una sola, in un esplosivo crescendo in cui Reznor, forse davvero per la prima volta, lancia una disperata richiesta d’aiuto all’esterno, auspicando un NOI che potrebbe seppellire e far rinascere ogni singolo IO.
Ma gira e rigira l’ora e trequarti di “The Fragile”, con cui Reznor avrebbe voluto scrollarsi di dosso ansie e paranoie, esponendosi con le sue fragilità e la sua precaria condizione psicologica, si accartoccia su se stessa senza riuscire mai davvero a trovare uno spiraglio, un appiglio per uscire definitivamente dall’autodistruzione, dalla solitudine, da dolori non soltanto fisici che non volevano saperne di affievolirsi. L’abuso di alcol e droghe varie ed eventuali, amplificatosi ulteriormente nel corso del seguente “Fragility Tour”, porterà Reznor a un punto di non ritorno che solo grazie a sedute di psicoterapia e ad una ferrea riabilitazione non ha avuto esiti nefasti. Ci vorranno altri sei anni prima che il marchio Nine Inch Nails torni su un disco di inediti, “With Teeth” del 2005, ma quello sarà già un altro Reznor, quello del nuovo millennio, quello dell’Oscar e della famiglia, un Reznor che una Starfuckers, Inc. non l’avrebbe mai più pensata né tantomeno scritta.