
Galleggia, Polly Jean, nella copertina di To Bring You My Love. Vestito rosso e labbra perfettamente in tinta, reminiscenza e conferma della sensualità e della carnalità dirompenti di “Dry” (1992) e “Rid Of Me” (1993), ma c’è una leggerezza in questo scatto che non sta solo nell’elemento che la circonda, l’acqua, ma anche negli occhi chiusi, in quelle ciglia lunghe un metro e in quel mento che tende delicato ma deciso verso il cielo, nei capelli che sembrano come lievitare, nelle braccia morbide che accompagnano il profilo del corpo. Ecco, il rossetto sbavato di “Dry” e la nudità con la capigliatura scomposta e inzuppata di “Rid Of Me” sono distanti, decisamente distanti, così com’è distante l’approccio stesso che PJ Harvey mette nella stesura del suo terzo lavoro in studio, il primo da quando ormai un po’ tutti hanno iniziato a considerarla un’artista di caratura mondiale.
Con “To Bring You My Love” Polly Jean mette da parte il punk che l’aveva formata, il garage cui era arrivata e le distorsioni in quota grunge di inizio anni Novanta per immergersi in un blues acido e scurissimo attraverso il quale la songwriter inglese parla ancora di donne e desiderio (Meet Ze Monsta), di figli e di maternità malata (il dirompente e simbolico singolo Down By The Water, ma anche l’esplicita I Think I’m A Mother), di uomini che le donne hanno smesso di vederle e considerarle (Working For The Man) e di donne che, nonostante tutto, continuano a desiderare la presenza di quegli stessi uomini (C’mon Billy), di agognata morte (Teclo) e di quell’amore che puoi fuggirlo quanto vuoi ma continuerà sempre a mancarti, in un modo o nell’altro (Send His Love To Me). Tutte tematiche ricorrenti nella produzione artistica di Polly Jean, così ricorrenti da rasentare l’ossessione.
L’organo che picchietta i sensi, gli archi che sottolineano i passaggi cruciali delle parole di Polly Jean e poi la sua voce perennemente inghiottita da un mostro interiore che la divora: tutti elementi che accentuano le suggestioni di un album che, se musicalmente subisce un alleggerimento rispetto ai primi due capitoli della discografia della musicista natia del Dorset, al contempo si fa liricamente e atmosfericamente decadente, pesante e sporchissimo, finendo per influenzare in modo indelebile quelli che da lì in poi sarebbero stati i tratti distintivi dello stile della Harvey. La produzione affidata a Flood e John Parish fa il resto, elevando la dimensione di Polly Jean da quella di frontwoman e titolare di un trio a quella definitiva di songwriter che parla e scrive solo per se stessa. In un modo che inizia proprio qui a farsi sublime.