Il successo, si sa, può rivelarsi davvero complicato da gestire. Qualcosa che può fagocitarti, che può masticarti e sputarti via come una cicca, che può metterti contro amici e familiari. E il successo registrato dai Depeche Mode con “Violator”, nel 1990, era stato pressoché ingovernabile, planetario, un successo che aveva elevato i quattro ragazzi di Basildon al rango di rockstar mondiali, loro che con il rock in senso stretto avevano sempre flirtato ma che proprio con il disco del ’90 erano riusciti ad incastrarlo definitivamente alle loro ricorrenti propensioni sintetiche. Il tour a supporto del disco, il mastodontico “World Violation Tour”, si era rivelato l’apice non soltanto per la fama e le ambizioni dei Depeche Mode, ma anche per le problematiche relazionali all’interno della band e per i rispettivi demoni che attanagliavano Dave Gahan, Martin Gore, Alan Wilder e Andy Fletcher. I Depeche Mode erano arrivati a un vero punto di non ritorno, a un passo da un baratro che avrebbe avuto nello scioglimento della band solo la punta di un iceberg ben più ingombrante.
Le pressioni per dare un competitivo seguito a “Violator” erano enormi, soprattutto per Martin che si occupava della scrittura. E che infatti affogava le sue ansie nell’alcol, a livelli ormai patologici. Dave era invece nel pieno della sua dipendenza, delle insicurezze sul suo ruolo di frontman che dava voce a canzoni scritte da altri (da un altro, nello specifico), un processo autodistruttivo che l’avrebbe portato di lì a qualche tempo a provare persino a farla finita. Alan era quello che soffriva di più le dinamiche tossiche all’interno della band, i giochi di potere, gli equilibri sempre in discussione, tanto che di lì a poco avrebbe poi deciso di allontanarsi definitivamente dai Depeche Mode. E in tutto ciò Andy, che provava a tenere in piedi la baracca, subì il forte contraccolpo della fatica del suo compito, cadendo in una spirale depressiva. Insomma, non esattamente i migliori presupposti per una band che doveva rientrare in studio per incidere un nuovo album.
Le registrazioni di Songs Of Faith And Devotion avvengono, come consuetudine per la band, in giro per diverse città; prima Madrid, in un’atmosfera generale che però non gli sarà particolarmente d’aiuto; poi Amburgo, dove prende corpo il il grosso di ciò che andrà poi a finire sul disco; infine Londra, ultimo passaggio dei quattro insieme a Flood (nuovamente al timone dopo i fasti di “Violator”) prima della chiusura dei lavori. Il disco non poteva ovviamente che risentire del contesto personale e collettivo in cui si trovavano i Depeche Mode, non è quindi un caso che si tratti di un album scurissimo e fortemente evocativo, una soffocante espiazione di peccati che stavolta riguardano direttamente i quattro membri della band. Il sacro e il profano si fondono nell’ottavo album dei Depeche Mode, in un processo di sofferente identificazione tra la penna di Gore e le interpretazioni di Gahan.
Il piano lacerante di Walking In My Shoes che fa a brandelli una tensione densissima fatta di incomprensione e pentimento; i cori gospel di Condemnation e Get Right With Me che provano ad alleviare il dolore innalzandolo verso il cielo; Judas (cantata da Gore) in cui si instillano dubbi dalle chiare corrispondenze bibliche; la stanza della vergogna di In Your Room, quella in cui Gahan si ritirava continuamente per iniettarsi il male nelle vene, ormai magro da far paura e con barba e capelli lunghi come un Cristo senza croce; e infine la tragicità imperante degli archi di One Caress. Tutto un campionario di sofferenza che stavolta, forse per la prima volta nella carriera dei Depeche Mode, aveva a che fare al 100% con loro stessi prima che con il mondo esterno. A contribuire ancora una volta alla resa visiva ci pensa Anton Corbijn, che nei videoclip dei singoli Walking In My Shoes e In Your Room sembra psicanalizzare il lavoro di Gore e Gahan trasponendolo in immagini e colori.
Il disco esce così il 22 Marzo del 1993, seguito ancora una volta dall’enorme successo del “Devotional Tour”, durante il quale Gahan, che ormai aveva portato oltre ogni limite di sopportazione il suo corpo martoriato dalla droga, ebbe persino un infarto causato dall’eroina e fu ripreso per i capelli dai medici. Lo sforzo provante e autodistruttivo messo in campo dai Depeche Mode, dal primo all’ultimo secondo della realizzazione e relativa promozione di “Songs Of Faith And Devotion”, si tradurrà di lì a poco nel già paventato abbandono di Wilder e soprattutto nel tentato suicidio di Gahan, nell’Agosto del 1995, quando nella sua casa di Los Angeles ingerì un po’ di pillole e provò a tagliarsi i polsi, a trentatré anni compiuti da appena qualche mese. Trentatré anni, non un’età qualsiasi.