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Amy Winehouse: in memoria di un talento più forte della fama e della solitudine

Photo Credit: Back To Black (Album Cover)
Photo Credit: Back To Black (Album Cover)

Nonostante epoche e contesti diversi, c’è un evidente parallelismo che può essere tracciato tra alcune delle figure più iconiche della storia della musica, tutte prematuramente scomparse: prendete Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin o Kurt Cobain (tutti membri di quell’affatto invidiabile Club 27), ma anche Chester Bennington, Scott Weiland e persino Chris Cornell, talenti cristallini e inarrivabili che hanno avuto vite letteralmente devastate dagli abusi, sì, ma anche da una profonda solitudine che li ha accompagnati nel corso delle loro sempre troppo brevi esistenze. Malgrado stuoli di collaboratori, amici, amanti, discografici e via discorrendo, la solitudine aveva per tutti loro le sembianze di un demone malvagio e annichilente, un demone che nessun disco di platino, nessun primo posto in classifica, nessun conto in banca milionario e nessun party esclusivo avrebbe mai potuto sconfiggere.

Amy Winehouse aveva avuto una vita abbastanza complicata, afflitta da disturbi alimentari fin da giovanissima, un rapporto burrascoso con i genitori Janis e Mitch anche a causa della loro separazione, un innato senso di ribellione e la musica come unica valvola di sfogo cui affidare i pochi momenti di felicità. Neanche quando “Frank”, l’album d’esordio pubblicato nel 2003 a neanche vent’anni, le valse la notorietà e coronò il suo sogno di affermarsi con la musica, neanche da quel momento in poi le cose per lei iniziarono ad andare bene. Nemmeno quando poi nel 2006 arrivò “Back To Black”, un disco di autobiografica tristezza e sconfinata malinconia che le portò in dote ben cinque Grammy. I fotografi perennemente appostati sotto casa, lo scherno sui giornali per le sue foto strafatta fuori al balcone o addirittura sul palco, il morboso e malato matrimonio (e successivo divorzio) con Blake Fielder-Civil, il continuo tira e molla con sostanze varie ed eventuali.

Al numero 30 di Camden Square, a Londra, il 23 Luglio di dieci anni fa Amy moriva da sola, distesa sul suo letto, i resti di una cena indiana lì per terra con alcune bottiglie di vodka fatte fuori in poche ore, YouTube aperto a ripercorrere i frammenti più luminosi di una carriera che aveva avuto come contraltare una vita piena d’oscurità. Overdose da alcol, inutile l’intervento delle due ambulanze accorse dopo la chiamata − tardiva, ma questa non è certo una sua colpa − di Andrew Morris, la guardia del corpo che accompagnava Amy e che era lì con lei anche quel giorno. Lì con lei ma senza esserci davvero, triste metafora di un intero percorso di vita.

Amy è finita letteralmente schiacciata da quella fama che in fondo non aveva mai cercato né voluto, e la solitudine di cui abbiamo parlato non ha fatto altro che accelerare tristemente un processo di autodistruzione che forse qualcuno a lei vicino avrebbe potuto arrestare, ma più probabilmente no. Ma il talento, quello c’era ed è rimasto, inossidabile e inscalfibile, più forte della fama, più forte della solitudine cui ha dovuto soccombere, più forte dell’alcol e del crack che le hanno divorato la salute e la vita. Più forte di Amy stessa.

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