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Beastie Boys Story: amicizia e successo di tre ragazzi bianchi che facevano hip hop

È il 12 Giugno del 2009, siamo al Great Stage Park di Manchester, Tennessee e, come spesso gli accade, i Beastie Boys chiudono il loro set da headliner del Bonnaroo con Sabotage. Mike D, Ad-Rock e MCA non sanno però che quella sarà anche l’ultima volta che staranno insieme su un palco, ad onorare brillantemente la ragione sociale che hanno reso leggenda e che chiuderà i battenti proprio lì, lontano dalla loro New York. È lo stesso Ad-Rock a raccontarlo, sul finale di Beastie Boys Story e quasi con le lacrime agli occhi, mentre sullo schermo alle sue spalle passano immagini e filmati di Adam “MCA” Yauch, il suo amico Yauch, scomparso il 4 Maggio del 2012 ad appena 47 anni a causa di un cancro.

Non a caso, “Yauch” è in assoluto il nome più ricorrente di questo “live documentary” affidato a Spike Jonze (c’era sempre lui alla regia dell’iconico video di Sabotage) e non è difficile comprenderne il motivo: le due ore di “Beastie Boys Story” sono fondamentalmente un tributo a un amico venuto prematuramente a mancare, di cui vengono raccontate l’arte, le visioni, le gag, le performance e gli spunti in studio di registrazione per quello che sono stati, ovvero linfa vitale dei Beastie Boys dal primo all’ultimo giorno della loro esistenza come progetto musicale. Non c’è tristezza nel racconto dei due, c’è invece la solita autoironia che li ha resi personaggi parallelamente a musicisti, c’è tanta palpabile gratitudine per quello che è stato e per la libertà che hanno avuto nel renderlo possibile.

E poi c’è la musica, è chiaro: Ad-Rock e Mike D raccontano in prima persona di chi presentò chi, di quando e come iniziarono a suonare insieme, di chi imbracciava quale strumento, degli esordi punk hardcore, di quante altre persone hanno girato intorno al loro nucleo nel corso degli anni, dei dischi, delle idee, dell’incontro con Rick Rubin che produsse il loro strabiliante debutto “Licensed To Ill” (1986), del contratto con la Def Jam e del rapporto burrascoso con l’etichetta che portò al passaggio alla Capitol, dell’attenzione maniacale rivolta loro da MTV, del Madison Square Garden pieno a tappo, della vita da newyorkesi a Los Angeles, tutta creatività, piscine e party, culminata però col fortissimo richiamo al rientro della Grande Mela.

La musica, certo, ma quella la conoscevamo già bene e probabilmente non avrebbe avuto bisogno di ulteriori approfondimenti o attestati di rilevanza. Quello che non sapevamo e che potevamo solo immaginare, invece, è il legame umano che ha unito in modo inscindibile le vite di Michael, Adam e Adam, la fortuna che ritengono di aver avuto – parole loro nel documentario – nel poter suonare e creare musica e andare in giro per il mondo ciascuno di loro con i rispettivi due migliori amici. Quella di “Beastie Boys Story” è la storia di una amicizia, più che di una band, e se non avete già letto la biografia alla base del documentario e del relativo spettacolo teatrale (“Beastie Boys Book”, 2018), ma anche se l’avete già fatto, regalatevi questo paio d’ore. Perché guardare in faccia Ad-Rock e Mike D, con la loro mimica e le loro smorfie, fa decisamente tutto un altro effetto.

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