È assai arduo parlare di un’icona come Kurt Donald Cobain (o Elvis Aaron Presley, o James Douglas Morrison). Per prima cosa, c’è da affrontare la gigantesca mole di precedenti, su ogni possibile media: documentari, libri, articoli, film, ognuno di essi racconta dell’argomento e diventa difficile non ripetersi. Arduo azzardare ipotesi che non siano già state smentite o confermate (ergo, ridondanti) con una sterminata quantità di prove, vere o presunte vere; impossibile in molti casi stabilire quali, tra le precedenti fonti, fornisca un ritratto reale e attendibile e quali siano parziali e aggiustate ad hoc, in un verso o nell’altro. Diventa quindi una chiave importante l’originalità, il produrre qualcosa che sia interessante, che non ripeta ciò che è stato già detto venti milioni di volte e al contempo non contraddica ciò che è stato provato come vero, né sostenga ciò che è già stato smentito come falso.
Il secondo problema è l’equilibrio. Se si opta per l’agiografia senza ritegno magari si fanno felici i fan irriducibili, ma in generale si passa per fessi (o, peggio ancora, si passa inosservati). Al contrario, uno sguardo eccessivamente critico può risultare inutilmente revisionista. Chiaro, il revisionismo di questi tempi senza idoli va di moda: non è difficile trovare supporto quando si critica una “sacred cow”, sia essa Cobain o Jim Morrison. La controindicazione è fare un feroce botto iniziale per poi venire dimenticati molto, molto presto: se uno diventa un’icona del rock, tendenzialmente c’è sempre un valido motivo. Si può essere in disaccordo con quel motivo, o disinteressati rispetto alle ragioni che portano quel personaggio nell’Olimpo, e questo disaccordo potrebbe avere argomenti altrettanto interessanti, ma si dà il caso che ancora nessuno abbia apportato un contributo che non sia risibile alla causa dei revisori, mentre in molti hanno già fatto la figura barbina che meritavano (citofonare Scaruffi per informazioni).
In ultimo, c’è da considerare quali fonti utilizzare e come reperirle. Gli idoli del rock, spesso, nella vita tendono ad avere una quantità relativamente limitata di persone che hanno accesso alla propria vita privata, vuoi per i ritmi di lavoro, vuoi per non farsi strappare i vestiti di dosso. Ne consegue che le fonti attendibili sono molto limitate e, a loro volta, ne hanno le palle piene di gente che vuole ripetuta ancora una volta la storia dell’idolo. C’è chi non disdegna di confidare sulle “rivelazioni” di comprimari e tirapiedi assortiti: vengono in mente Stephen Davis, autore di una biografia gossippara di enorme successo sui Led Zeppelin, ricostruita tramite le storie narrate da Richard Cole, tour manager eroinomane della band e, a sentire gli Zeppelin e i loro associati, rinomato cazzaro, o Nick Broomfield, che ha costruito un documentario basato su una teoria che egli stesso ritiene non rispondente al vero (l’omicidio di Cobain perpetrato dalla moglie) utilizzando dichiarazioni di terza mano e interviste “guidate” fornite da personaggi di dubbia credibilità, collateralmente legati al soggetto del documentario in maniera a volte talmente vaga da far sorridere. Il successo, in questo caso, è spesso garantito. Il risultato artistico, un po’ meno.
Brett Morgen nell’assemblare questo Cobain: Montage Of Heck (titolo mutuato da un collage sonoro che Cobain compose nei primi anni dei Nirvana), supera in maniera sorprendentemente brillante ognuna di queste problematiche, usando fonti che più dirette non si può (madre, padre, moglie, ex-fidanzata, Krist Novoselic, la viva voce di Cobain medesimo), una tecnica narrativa assolutamente originale e un equilibrio e una mancanza di pregiudizio invidiabili: mostra Cobain per quello che era, nel bene e nel male, e se le voci delle persone che lo amavano tendono certamente ad essere faziose, la struttura del film e le domande poste equilibrano la visione di Cobain, mostrandolo umano, cacacazzi, viziato, delicato, sensibile, capriccioso, intelligente, egoista, amorevole. Ma dietro ognuno di questi aggettivi Morgen cerca di scovare una motivazione, spesso con buoni risultati.
“Montage Of Heck” usa un misto di filmati familiari (della famiglia Cobain per mostrare Kurt da bambino, della famiglia Love/Cobain per mostrarlo all’apice del successo), animazioni dirette dal regista olandese Hisko Hulsing che illustrano la viva voce di Cobain che narra di alcune tra le esperienze più intime della sua vita (come un tentativo di suicidio ai tempi delle scuole superiori), filmati live che vanno dalle primissime esibizioni in casa di amici all’MTV Unplugged e pagine del diario di Kurt, i cui inquietanti disegni vengono animati da Stefen Nadelman. Il ritratto si concentra sulla persona Cobain, mostra il cambiamento da bambino felice ad adolescente scassacazzo, ma scassacazzo perché profondamente ferito ed umiliato dal divorzio dei genitori, che, a turno, lo cacceranno di casa. Mostra il passaggio dalla realtà plumbea e gretta di Aberdeen alla realtà fasulla e velenosa del mondo dello spettacolo, ne mostra i problemi di salute che lo fanno iniziare ad auto medicarsi con l’eroina ma lo portano a diventare un tossico a tutti gli effetti, cosa della quale Cobain era profondamente imbarazzato e umiliato. Ne escono male la Love e la madre di Kurt, entrambe persone profondamente antipatiche (con una curiosa similarità nel modo di esprimersi, se estirpiamo i “fuck” dal linguaggio di Courtney, Freud gongolerebbe alla loro vista), e inquieta il fatto che i filmati della coppia, ripresi nel loro appartamento in momenti di intimità, siano stati ripresi da Eric Erlandson, chitarrista delle Hole ed ex fidanzato di Courtney (“that was fucking weird”, ha dichiarato lo stesso regista).
Manca Dave Grohl, che era impegnato nella registrazione di “Sonic Highways” (Morgen giudicò il “montage” già perfettamente equilibrato al ritorno del batterista, e non volle modificarlo), e rari sono i riferimenti alle modalità di scrittura e registrazione (spesso affidati alle pagine del diario di Cobain), ma, a parte ciò, la titanica impresa del raccontare la persona Cobain è perfettamente riuscita. L’unico timore (già concretamente rafforzato da numerose dichiarazioni in merito) è che questa impresa condurrà nuovamente verso la strada del “Rape Of The Vaults”, per citare il nome di un famoso bootleg dei Nirvana: una nuova serie di boxset e album di qualità audio terribile che continuano la saga di sfruttamento editoriale e discografico del leader dei Nirvana e di qualunque cosa abbia mai fatto o detto. Già tirata fuori per l’occasione una scoglionata cover casalinga di “And I Love Her” dei Fab Four, di nessun pregio artistico, attendiamo ansiosi una ventina di ore di demo fruscianti.
Intanto, però, ci godiamo un’opera sincera e ben riuscita, forse non particolarmente interessante per chi non fosse a conoscenza della storia della band e della loro musica e più dedicata agli “iniziati”, ma non di meno un lavoro qualitativamente straordinario che resterà come una delle opere migliori dedicate al musicista simbolo degli anni ’90, allo “spokesman for a generation”, la voce della Generazione X. Che, in fondo, era solo una persona.