I nomi di Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo sono pronunciati con estrema riverenza, a maggior ragione dopo l’annuncio di poche settimane fa. Ispirano venerazione, timore, adorazione. E se, per caso, collaboravano con qualcuno (o, “miracolo, miracolo!”, decidevano di pubblicare un album) le folle si strappavano i capelli, i critici si raccoglievano in cerchio per menarselo l’un l’altro, insomma una serie di celebrazioni e tributi in segno di adorazione. Non che i robot (come vengono chiamati affettuosamente da collaboratori e amici) non lo meritino, anzi: decisamente tra i musicisti più capaci di causare un impatto che perduri sulla musica moderna e sul modo di ragionare di musica, i Daft Punk hanno meritato il ruolo di assoluti guru in un’era nella quale gli idoli svaniscono rapidamente come falene fritte da una lampada antizanzare.
Di più, sono stati furbi a crearsi un’identità segreta, anticipando, come sono soliti fare, il futuro, un futuro di sovraesposizione mediatica che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò, per informazioni citofonare Spears, Winehouse & Co. Non solo: nella loro ormai più che ventennale carriera hanno fatto solo due tour, uno nel 1997 e uno nel 2006/07, e se ciò alla casa discografica, al pubblico o a chi volete voi non è stato bene… beh, cazzi loro.
Ma non è sempre stato così. Il loro secondo album, quel Discovery oggi largamente considerato un capolavoro, vent’anni fa lasciò perplessi alcuni grandi nomi: Ryan Schreiber, fondatore di Pitchfork, vaneggiava di non aver preso abbastanza ecstasy e tranquillante per elefanti per apprezzarlo (deridendo il testo di One More Time), Alexis Petridis, al Guardian, paragonava Veridis Quo alla colonna sonora di un thriller erotico di bassa lega, Rachelle Ansell di Drowned In Sound diceva che “tempo sei mesi userò questo CD come sottobicchiere”, in una “divertente” recensione nella quale perculava l’accento francese dei due, e Christgau, l’autoproclamato “decano dei critici rock”, diceva di trovare beat migliori nell’album di Jadakiss.
Non critiche a un album che non era all’altezza – secondo loro – del precedente, ma vere e proprie prese per il culo. Andava di moda allora stroncare le band di musica danzereccia e, nonostante l’esordio “Homework” (1997) non fosse esattamente un classico disco di un qualunque duo house ma un rivoluzionario manifesto destinato a modificare il destino della dance music, “Discovery” a un ascolto disattento poteva sembrare una cialtronata retrò da sfottere e i Daft Punk l’ennesimo fenomeno da dancefloor (seppur con qualche singolo e video straordinario, per il quale si scomodarono addirittura Gondry e Spike Jonze) destinato a svanire in tempi brevi.
Sarebbe, tuttavia, convenuto prestare più attenzione al contenuto di quel disco straordinario, a tratti kitsch con quel vocoder (o meglio “auto-tune”) allora considerato un divertente trucchetto usato da Cher e un campionario di pop rock anni ‘70/’80 molto poco à la page, perché c’era molto più di quanto non riscontrassero i superficiali ascolti di alcuni. A partire dal titolo, intanto: “Discovery”, scoperta, proprio come quella che si fa nella propria infanzia nei confronti della musica, senza particolari pregiudizi; ti piace ciò che ti piace, perché sì e non ti domandi se è di moda, se è figa o meno. Un’emozione che i Daft Punk hanno voluto ricreare utilizzando campionamenti di roba a quel tempo non ancora riscoperta (George Duke, interpreti minori della disco come Edwin Birdsong o persino Barry fottuto Manilow) o gli assoli in stile Malmsteen di Aerodynamic, testi semplici, ripetitivi, pieni di sentimenti altrettanto candidi: “One more time, we we’re gonna celebrate, oh yeah, alright, don’t stop the dancing”.
Poi, il desiderio di unità, di aprire la mente degli ascoltatori a qualcosa di diverso, di superare le divisioni del “disco sucks”: “Se con ‘Homework’ volevamo dire ai ragazzi che ascoltavano rock che la musica elettronica è figa, con ‘Discovery’ facemmo l’opposto, cioè dire ai ragazzi elettronici ‘il rock è una figata, sapete? Potete ascoltarlo”. Ciò venne fatto non solo utilizzando il campionamento in una maniera semplicemente straordinaria – cioè non usando un pezzo di una canzone altrui come ritornello, come accade in “I’ll Be Missing You” di Puff Daddy o “Sing For The Moment” di Eminem, ma trasformando un pezzo di musica altrui in un pezzo di musica diversa – ma addirittura risuonando gran parte delle parti campionate e creando dei “finti campionamenti”.
A distanza di vent’anni, oggi si coglie l’enormità di quel lavoro, la sua perdurante influenza sulla musica elettronica, sul pop e persino sul rock. E se, ingenuamente, avevamo sperato che per questo anniversario i robot ci avrebbero regalato un nuovo album, tornando ancora una volta Harder, Better, Faster, Stronger, invece ci troviamo a guardarci indietro e a pensare “cazzo, ci vorrebbero Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo” a dare una sistemata a questa situazione”.
DATA D’USCITA: 12 Marzo 2001
ETICHETTA: Virgin