Oggi Jeff Buckley compirebbe 55 anni. Ma che c’entra Jeff con questa età? Nulla, zero. Non contiamoli gli anni di Jeff Buckley, facciamoci un favore. È il suo volto a suggerircelo: quella intensa malinconia rotta da un accenno di sorriso. Una specie di lasciapassare per il suo mondo che non può essere quantificato matematicamente a primavere e lustri. Jeff è ragazzo per sempre, come suo padre allo stesso modo. Non è retorica, non ci provate. È quasi cronaca. Ma è anche un vecchio difetto che abbiamo noi, quelli rimasti sulla terra: agganciarci ad anniversari quasi fossero bagliori di memoria. Lo facciamo per sentirci comunità, per stringerci attorno a qualcosa, compiendo di fatto un’operazione egoistica, forse anche narcisistica. Perché Jeff non ha nulla a che spartire col tempo e con i suoi 55 anni. Lui è una specie di angelo con ali dipinte. C’è questa foto che lo ritrae. Sembra quasi un’icona. Buckley in posa per uno scatto che è già storia prima della storia. Forse è la storia che ci prende tutti per il culo, sa cose che noi non possiamo neanche immaginare. Fa inghiottire da un fiume una rockstar a Memphis, fa atterrare sulla terra un disco che pare una navicella spaziale. Ci fa credere che qualcosa poteva essere evitato, scongiurato. E poi, anni dopo, ci rimette davanti agli occhi un anniversario, una memoria che scalda. In Mojo Pin, il pezzo che apre Grace e che racconta candidamente cos’è la memoria, Buckley canta: ”I cavalli bianchi fluttuano / I ricordi bruciano / I ritmi cadono piano”. Per poi sferzare il verso definitivo della sua carriera: ”Ageless, ageless / I’m there in your arms” (“Senza età, senza età, sono lì tra le tue braccia”). Anche in quel caso la storia sapeva tutto e noi ignoravamo. Anche quello era un modo per Jeff di annullare il tempo, di annullarsi nel tempo. Quel tempo che, ci giurerei, ha ormai scolorito le ali d’angelo dipinte sul muro e che non ha più diritti su Jeff. Come noi non li abbiamo sulla sua età.
Senza età, senza età.