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The Clash: 45 anni del self titled

London’s burning. Londra (e non solo) alla fine degli anni Settanta era veramente in fiamme: la crisi economica, le crescenti tensioni razziali tra immigrati di colore, abitanti delle periferie e la polizia che non esitava a usare la violenza in qualunque occasione, l’instabilità politica, “The Troubles” e gli aspri scontri con l’IRA, e sullo sfondo la rabbia e l’insofferenza delle nuove generazioni e il conseguente sviluppo del punk ideologico, più o meno estremo.

Insieme alle sonorità esportate dalla scena newyorkese, che aveva come epicentro il mitico CBGB, e in particolare dai cosiddetti “Fast Four”, i Ramones, l’ondata inglese del cosiddetto Punk 77 si componeva anche di simboli, testi politici fortemente provocatori, e un look identificativo fatto di t-shirt logore e giubbotti di pelle, ereditato parzialmente dalla scena americana e sviluppato dalla futura stilista Vivienne Westwood, compagna di Malcolm McLaren, ex manager dei New York Dolls e fautore/inventore (del resto si dice che sia stato tutto un bluff, e in tal caso sarebbe il più riuscito della storia) dei Sex Pistols.

Questi ultimi e i loro live sgangherati, ma d’impatto, influenzarono e favorirono la genesi di molte band di spicco a loro contemporanee e future, tra cui The Clash. “Scontro”, non vi era altra parola che campeggiasse in bella vista su ogni quotidiano dell’epoca con maggior frequenza, e da lì nacque l’idea per il nome del gruppo: il chitarrista Mick Jones, appoggiato dal manager Bernard Rhodes, dopo vari cambi di formazione, reclutò Paul Simonon in qualità di bassista (sarà lo stesso Jones a insegnargli a suonare), il batterista Terry Chimes, entrambi di origine proletaria come lui, e Joe Strummer, proveniente invece da una benestante famiglia di diplomatici.

Teste calde i cui primi incontri casuali sfociarono quasi in rissa, soprattutto tra Jones e Strummer a causa della diversa estrazione sociale, il quartetto aveva già le idee chiare e, nonostante le prime performance disastrose, sapeva esattamente ciò che voleva e quel che intendeva comunicare. La penna tagliente di Joe conferì fin da subito al gruppo una connotazione “politica”, in direzione opposta a quella dei Pistols, consapevole del potere della musica come strumento per trasmettere e veicolare messaggi importanti. I puristi più radicali del genere riconosceranno di stampo realmente “classic punk” solo i primissimi lavori The Clash e “Give ‘Em Enough Rope” (1978). Ma tra contraddizioni, presunte “montature”, punk is alive, punk is dead: è davvero esistito il punk? Esiste ancora? Ma soprattutto, che cos’è davvero “punk”?

A dominare nel debut del gruppo sono gli anthem Janie Jones, con il suo riff di batteria scalmanato, l’irrefrenabile White Riot, brano cardine in aperto sostegno alla popolazione afro-caraibica perseguitata dalla polizia e inno contro l’oppressione perpetrata da parte di quest’ultima, e le chitarre dell’altrettanto esplosiva e significativa London’s Burning. A sottolineare ulteriormente i crimini della destra inglese e l’abuso di potere in tal senso sarà la mossa di accreditare Terry sotto lo pseudonimo di “Tory Crimes”. Anticapitalismo e detestazione verso la propria etichetta discografica sono al centro dei guitar riff di Remote Control, vi è inoltre l’opposizione alle poche possibilità di carriera offerte (spesso in ambito militare) della veloce Career Opportunities, mentre una grande dose di sarcasmo è riservata all’America, prendendone di mira l’ipocrisia, il sistema economico e la corruzione dilagante nella graffiante I’m So Bored With The U.S.A..

Storie di quotidianità e della gioventù dell’epoca sono rappresentate dall’esistenziale e potente What’s My Name, la cui matrice sonora può essere rintracciata nei Television, dai tabloid bugiardi che riportano una realtà distorta illustrati nell’incalzante e ramonesiana Deny, dal cattivo ragazzo di Cheat, e dalle beffarde Protex Blue e 48 Hours. Tornano le invettive contro i funzionari di polizia nella lotta giornaliera raccontata in Hate & War e nella cover del brano raggae Police & Thieves, quest’ultima dimostra come fossero già presenti alcune contaminazioni tra i generi musicali e sono ben visibili anche dall’armonica di Garageland, date le origini rockabilly di Joe, che in precedenza aveva fatto parte dei The 101’ers.

Possiamo a questo punto provare a rispondere ai quesiti posti in precedenza: “punk” è tutto ciò che sorprende, scandalizza e va controcorrente, sciocca, stravolge, spesso si contraddice e cozza con quel che appartiene all’esser “punk” secondo il punto di vista di qualcun altro, oltre ad una questione di sound più o meno grezzo e veloce. Al giorno d’oggi lo vediamo con la nuova scena post punk: chi la domina non ha uno stile uguale a quello dell’altro, ma mescola diverse tipologie di sonorità e sperimenta di continuo, ponendo al centro delle liriche i propri intenti.

Tutto questo i Clash ce l’hanno insegnato con un monumento come “London Calling” (1979) o con “Sandinista” (1981). Quindi non solo è esistito, ma è vivo tutt’ora, bisogna solo avere il coraggio di ricercare e ascoltare con attenzione (abitudine di cui sarebbe bene riappropriarsi in generale). Veicolo fondamentale e manifesto degli ideali di quella che prenderà posto tra le band più influenti al mondo nella storia della musica (che dichiarerà tuttavia la morte del punk e di ciò che ha rappresentato solo una manciata di anni dopo), poco più di mezz’ora di stilettate di basso e chitarra feroci, venati di rock and roll e prime celate avvisaglie raggae, la pietra angolare “The Clash” suona tutt’oggi di grande attualità per i suoi contenuti.

DATA D’USCITA: 8 Aprile 1977
ETICHETTA: CBS

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.

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