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The Doors: 50 anni di L.A. Woman

Sembra incredibile pensare che la carriera dei The Doors sia durata solo sei anni. Forse dipende dalla percezione che si ha di Jim Morrison: a vederne una foto nel 1965, poi una tratta dal famoso servizio fotografico del 1967 di Joel Brodsky (“The Young Lion”) ed infine una risalente al 1971, quando Morrison era grasso, gonfio, con una lunga barba ed in un pessimo stato di salute, sembrerebbe che tra ognuna delle foto siano passati quindici anni almeno. E anche a sentirne la voce, dai primi demo (senza ancora Robbie Krieger) a “Strange Days” (1967) fino a L.A. Woman, Morrison sembra un uomo che invecchia almeno al triplo della velocità degli altri. Di certo “viveva” almeno al triplo della velocità degli altri. E infatti era stanco, stanco morto. E altrettanto certamente erano stanchi i suoi compagni di band; stanchi di lui. 

Miami, 1 Marzo 1969: al Dinner Key Auditorium, saturo ben oltre la capienza consentita, Jim è stanco. Ubriaco, certo. Ma fondamentalmente stanco: stanco della fama, stanco di dover essere costretto a mettersi la maschera del satiro inebriato e, ironicamente, la veste con più convinzione del solito. Il concerto (del quale potete trovare il momento culminante nel box set uscito nel 1997, e che è forse una delle poche parti girate in maniera realistica nel biopic di Oliver Stone) diventa un delirio, Jim non ha nessuna intenzione di cantare e inveisce contro il pubblico. Pare si tiri fuori il cazzo, o perlomeno è di questo che l’accusa la contea di Dade, Florida, in un processo che peserà su Jim fino alla sua morte. Ma sarà non solo un peso per lui, ma anche per la band, ostracizzata dall’America puritana e ormai derisa come uno show da circo anche dalla critica musicale.

New Orleans, 12 Dicembre 1970: Jim aveva avuto alti e bassi nei mesi successivi a Miami, ma “Morrison Hotel” era stato un grande ritorno alla forma dei tempi migliori e, nonostante un’esibizione non esaltante al Festival dell’Isola di Wight, si sperava Jim potesse reggere degli altri concerti, di cui la band aveva disperatamente bisogno per tornare in auge definitivamente. Ma così non fu. Quando Morrison era in modalità distruttiva, il loro produttore Paul Rothchild soleva definirlo “Jimbo”, l’alter ego malvagio di “Jim”. Ma qui non era Jimbo, né Jim. Era un guscio completamente vuoto: non ricordava i testi, incominciava a raccontare barzellette e dimenticava il finale… uno spettacolo atroce. La band cercò di risollevare la situazione suonando “Light My Fire”, ma Jim non si reggeva in piedi, appoggiandosi all’asta del microfono. Lo stesso microfono che fini prima in pezzi, fracassato contro il pavimento e poi lanciato come un giavellotto in mezzo al pubblico. Miracolosamente, non colpì nessuno, ma i Doors ne avevano abbastanza: mai più dal vivo con quel figlio di puttana, disse Densmore.

E se la band era stanca di queste stronzate, il loro fido produttore Paul Rothchild, con loro sin dall’esordio, si mostrò altrettanto stanco, ma dell’intera band: ancora a pezzi per la morte della Joplin, per la quale aveva prodotto “Pearl” e della quale, a sentire Bruce Botnick (tecnico del suono da sempre al suo fianco) si era perdutamente innamorato, Rothchild aveva portato la band negli studi dove registrarono l’esordio, i Sunset Sound, per cercare di “light their fire”, riaccendere il loro fuoco, ma ciò che aveva sentito era penoso. Quasi non parlavano tra loro e la musica… Love Her Madly? Che cazzo era quella merda? No, ne aveva abbastanza, potevano registrare con Bruce, si fottessero tutti e quattro. 

Curiosamente, questo riaccese davvero la fiamma: il perfezionismo del produttore rendeva le sessioni, già cariche di tensioni, insostenibili. No, Bruce capiva: ci voleva serenità. “Dove volete registrare, dove sareste più a vostro agio?”, chiese. La risposta era semplice, nella loro sala prove, al 8512 di Santa Monica Boulevard. E fu lì che i Doors registrarono quello che è probabilmente il loro miglior disco, fatto di blues puri ma anche di canzoni pop perfette ed epici capolavori degni dei migliori Doors: uno, Riders On The Storm, è forse uno dei pezzi più conosciuti della band losangelina, un atmosferico, jazzato viaggio nelle macabre storie di viandanti killer che Morrison tanto amava, arricchito da preziosi dettagli come una seconda traccia vocale che Morrison sussurrò sotto la prima; l’altra, L.A. Woman, una lettera d’amore alla sua Los Angeles, bellissima e orribile, piena di “motel, money, murder, madness” e “little girls in their Hollywood bungalows”, un glorioso capolavoro di quasi otto minuti che li vede rauchi, ispirati e diretti. Niente Edipo né Freud, no. 

Botnick parla di un Morrison estremamente gentile, concentrato e felicissimo della presenza di Jerry Scheff, bassista di Elvis (del quale era un grande fan), come bassista della sessione, ed emozionato dai numeri blues registrati per l’album, da Crawling King Snake di John Lee Hooker a Car Hiss By My Window. E, contrariamente a quanto accadeva subito prima e subito dopo, niente droghe e quasi niente alcool. Curioso per un alcolizzato autodistruttivo come Jimbo, che ormai aveva permanentemente preso il posto di Jim. Forse, semplicemente, quello che portava Jim a diventare Jimbo era quella maschera che era costretto a indossare in pubblico, quella che pensava che i fan volessero, quella che pensava che l’interminabile cricca di sicofanti – pronti a mollarlo e tornare a casa non appena aveva finito i soldi per offrire a tutti per la serata – fossero felici di avere attorno, e che gli era rimasta tristemente attaccata alla faccia, insieme ad una dipendenza dall’alcool che gli stava polverizzando la salute.

Ma nessuno sopportava Jimbo, quello stronzo che rovinava ogni serata, ogni concerto, ogni momento; c’era chi sfruttava Jimbo come un bancomat, ma gli altri avrebbero ben volentieri voluto che scomparisse per fare permanentemente posto a Jim, quel ragazzo divertente e di enorme intelligenza, cultura e dal sottovalutatissimo talento vocale e musicale. Quei momenti insieme a John, Robbie e Ray, isolati da tutto e immersi nel blues… beh, quelli non erano male. Né per Jim, che semina citazioni (di Rechy, Fariña e altri) come ai vecchi tempi, né per la band. 

“L.A Woman” è un album incredibile, ricco di pezzi eccellenti, uno dopo l’altro (Been Down So Long o The Changeling sono altri due esempi, ma si può citare qualunque pezzo a caso), ma fa male al cuore. Perché ci si può scervellare su quanto Morrison fosse salvabile (del resto era un ventisettenne e, nonostante i danni arrecatisi fino a quel momento, era ben lontano dalla via di non ritorno) o convincersi che fosse un miserabile sciagurato e che meritò la sorte che gli toccò e che sembrò perseguire con ancora più foga una volta partito per i suoi “quiet days in Paris”. Ma ascoltare i quattro all’opera insieme, felici, perfetti non può che far sollevare la domanda ad ogni appassionato di musica rock: quanto ancora avrebbero potuto dare se Jim fosse riuscito a cacciare Jimbo per sempre?

DATA D’USCITA: 19 Aprile 1971
ETICHETTA: Elektra

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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