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Tori Amos: 25 anni di Boys For Pele

Se esiste un dato riferibile a ogni decennio della storia recente, ma comunque maggiormente riscontrabile negli anni ’90, è il seguente: mai come in quel periodo ascoltatori occasionali e regolari, che fossero amanti del rock, post punk, garage o di nulla in particolare, assidui frequentatori delle discoteche o fruitori radiofonici, avevano la possibilità di entrare in contatto con la stessa tipologia di artisti. Si pensi al paradosso di “Firestarter”, “Smack My Bitch Up” e “Breath”, singoli di punta di “The Fat Of The Land” dei Prodigy, manifesto dell’estetica rave sommersa e proibita, in rotazione costante su MTV o su emittenti mastodontiche come Radio Deejay. Professional Widow di Tori Amos, nella versione remixata dal Armand Van Helden, seguì un percorso simile, riuscendo nella grottesca impresa di far incontrare, all’interno di una sorta di purgatorio sonoro, due anime di pubblico diametralmente opposte.

Myra Ellen Amos, pianista e cantautrice statunitense, Tori per gli amici e per migliaia di persone, era già abbastanza nota a un pubblico alternativo grazie a “Little Earthquakes” (1992) e “Under The Pink” (1994), entrambi contornati da liriche ermetiche e una propensione naturale a melodie pianistiche. Boys For Pele iniziò a crescere nella mente di Tori proprio durante il tour del disco che conteneva “Cornflakes Girl”, destinata suo malgrado a diventare un manifesto di quegli anni. La rottura della relazione con il suo ex produttore Eric Rosse, un viaggio alle Hawaii oscuro come la Honolulu di Murakami e una rabbia che l’artista non riusciva più a tenere dentro, furono la scenografia di un disco che confuse un po’ tutti per la sua indole in un primo momento carezzevole, gotica e dissonante un minuto dopo.

Pubblicato il 22 Gennaio del 1996, “Boys For Pele” fu il primo album interamente prodotto dall’artista e probabilmente il suo lavoro meno accessibile. Furono molti gli uomini che Mary Ellen sacrificò dinanzi all’altare della Dea del fuoco hawaiiana, Pele. Ogni singola e criptica parola, ogni armonia, ogni nota di clavicembalo, di pianoforte, ognuno dei settanta musicisti al suo servizio durante le incisioni, ogni vocalizzo stridente, orbitava intorno alla rabbia per l’umiliazione di una violenza sessuale, quella subita dalla stessa artista, vomitando odio verso se stessa e nei confronti degli uomini tutti, che fossero padri, amanti o amici.

Se esisteva un Dio, quello stesso invocato da suo padre durante i sermoni metodisti, quel Dio presente nella piccola cappella della Contea di Wicklow, in Irlanda, all’interno della quale “Boys For Pele” fu registrato, un Dio che non l’aveva sottratta a uno stupro, a una famiglia soffocante e alle relazioni tossiche, quello stesso Dio andava cercato e schernito. Era quello il momento giusto per rinunciare al suo status di pianista eterea e donna vulnerabile per conquistare il suo impero ed esserne finalmente padrona, e Tori Amos lo fece accogliendo le sue allucinazioni notturne e sogni sfumati. Furono quelle stesse visioni a permetterle di passeggiare a braccetto con Satana, imbottita di allucinogeni (Father Lucifer), di avvertire la presenza di una piccola amica dalle magiche doti al sapore di stricnina, mentre il suo Bösendorfer accennava a un brevissimo tema burlesque (Mr. Zebra); furono quegli stessi deliri ad accompagnarla durante la ricerca spasmodica della parte femminile di Dio che era stata circoncisa (Muhammad My Friend).

Da “Boys For Pele” vennero estratti quattro singoli: Caught A Lite Sneeze, intrigante stratificazione tra linee di piano, clavicembalo e percussioni industrial e prima traccia al mondo a essere resa disponibile come download gratuito, Talula, Hey Jupiter e Professional Widow. Fu proprio quest’ultima a innescare uno strano meccanismo di incontro tra popoli al confine: una vedova professionista, che si mantiene istigando al suicidio i suoi mariti, come Lady Macbeth. Sebbene mai confermata, l’idea secondo cui Professional Widow fosse rivolta a Courtney Love, rea di aver incrinato i rapporti tra la Amos e Trent Reznor, non smise mai di circolare.

Al di là del pettegolezzo sterile, è innegabile come quella traccia abbia segnato un momento cruciale nella carriera di Tori Amos, con una versione originale ibrida tra punk e paesaggi gotici, senza dubbio più complessa e aggressiva di tutte le sue precedenti composizioni. Il mix di Armand Van Helden raggiunse la prima posizione della UK Charts e, poco dopo, Tori Amos si innamorò di Mark Hawley, tecnico del suono del tour di “Under The Pink” e suo compagno da oltre vent’anni.

Sono centinaia le interpretazioni che girano intorno ai testi di Tori Amos e di “Boys For Pele”, ma tentare di trovare un significato univoco ai riferimenti mitologici, religiosi, allucinogeni e sentimentali che si trovano al suo interno, rappresenta da sempre un’impresa titanica. “Boys For Pele” rimane a oggi l’album più oscuro e al contempo uno dei più venduti della sua carriera, accolto dal pubblico (meno dalla critica) in un tempo in cui, forse, si abbracciava il cambiamento più che la routine. Molti anni dopo, nel 2011, la Deutsche Grammophon distribuiva “Night Of Hunter”, dodicesimo album dell’artista. Perché, suo malgrado, Tori Amos è riuscita a insinuarsi ovunque, dai club di Ibiza alle sale “dorate” di una delle etichette più antiche del mondo.

DATA D’USCITA: 22 Gennaio 1996
ETICHETTA: Atlantic

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.

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