Non fosse stata mattina, forse Amaury Cambuzat si sarebbe presentato in videochiamata avvolto nella tuta da tuareg comprata nel deserto del Marocco. Magari senza mostrare il volto. È una fase di nascondiglio, questa, per lui, una necessità di purezza e sostanza che si è acutizzata nell’ultimo periodo ma che lo ha accompagnato sempre nella sua carriera. Cambuzat è così, prendere o lasciare. Appare e scompare. Si cela poi si rinnega. È Ulan Bator con i suoi venticinque anni di dischi da fine del mondo. È oggi un nuovo progetto ancora più complesso chiamato I FEEL LIKE A BOMBED CATHEDRAL: musica visionaria, tappeti elettrici spazzati dall’improvvisazione, disco in uscita per un’etichetta ungherese di musica sperimentale. Amaury si nasconde, dà l’addio al rock, si copre il volto, cerca l’oscurità. Nel frattempo la sua traiettoria ha toccato Londra, poi casa sua in Francia, quindi la Toscana e ora Napoli. Un parigino a Napoli. Ecco servito il primo contrasto.
Napoli e il buio della tua musica. Ti diverti con gli ossimori?
Non ti credere. Io in Napoli ci vedo un lato molto dark. Siamo sotto un vulcano, viviamo l’effetto della precarietà e del fatalismo. È vero, è una città piena di sole, ma anche cupa per certi versi. Come me.
Ricordo l’EP degli Ulan Bator “Soleils”, portava in copertina un’eclissi di sole.
Esatto. Quello è un disco che adoro, molto ulanbatoriano proprio come “Nouvel Air”. Lavori con un po’ di luce ma che non sono pop come qualcuno mi disse ai tempi. Sono dischi seri con alcune luci immediatamente smorzate da aspetti più spiazzanti.
Torniamo a Napoli. Come procede la quarantena?
Sto bene dai, non ho il coronavirus e già questo è importante. Sono in questa casa abbastanza spaziosa con la mia ragazza, abbiamo un giardino.
Ricordo quando in “Hemisphere” reiteravi allo stremo il verso “à répétition”. Non ti spaventa la routine della clausura?
No, per nulla. Non sento la noia perché ho sempre qualcosa da fare. Ad esempio per un mese mi sono occupato del missaggio del disco dei Mattatoio5, un’interessante band veneta. Poi, sai, noi artisti siamo abituati a lavorare da casa e abbiamo sempre cose lasciate a metà o altri progetti in ritardo. In casa ho tutta la mia attrezzatura quindi suono tantissimo. C’è sempre da fare, da imparare. Sono capace di passare ore su un pedale di chitarra per studiare tutti i suoi effetti. Certo, mi manca non prendere una birra con gli amici e mi è dispiaciuto non passare le vacanze in Francia. Ma la situazione è questa e va accettata.
Cosa si dice in Francia di questo virus e hai sentito i Faust in Germania?
La Francia ha sottovalutato il problema all’inizio e ora prova a contenere. Rispetto all’Italia però ha iniziato a pensare a una vita dopo il coronavirus. Ad esempio riapriranno le scuole a metà Maggio. Forse è una cosa folle, non so. In Germania i miei amici tedeschi mi raccontano che hanno avuto molti malati ma pochissimi morti. Dicono di essere stati piuttosto disciplinati e per questo hanno attutito il colpo. Anche Zappi e Jean-Hervé hanno rispettato le regole. A Maggio sarei dovuto partire con loro in tour in Inghilterra per una serie di concerti in cui avremmo riproposto interamente “Faust IV”, ma è saltato tutto. Peccato.
In Italia si è aperto il dibattito su quanto poco la cultura (e quindi la musica) sia tutelata a seguito di questa emergenza. Come la vedi tu?
Come la penso? Penso che decidere di fare l’artista è come contrarre una brutta malattia. Non pretendo che lo Stato mi tuteli per il coronavirus. Lo Stato non riesce ad aiutare gli operai, figurati gli artisti. Questa è la vita che ci siamo scelti. Io non mi aspetto nulla da nessuno, ma non da ora… da quando venticinque anni fa ho mollato un lavoro fisso e ho scelto la musica. Ai tempi lavoravo per una grande catena di vendita dischi a Parigi, avevo il mio stipendio, le mie sicurezze. Però quello che mi ha dato la musica in questi anni non me l’avrebbe dato nessun’altra vita.
Però questo maledetto virus rischia di far saltare un anno di concerti. Non ti spaventa?
Come ti dicevo, tutto il tour con i Faust l’ho già perso, forse lo sposteremo in autunno. La situazione non è facile, la gente avrà paura a chiudersi in un locale, a sudare assieme agli altri come prima. Ma a Parigi, dopo gli attentati terroristici, poi i concerti sono tornati, così come a Londra: all’inizio la gente aveva paura a stare in strada, poi ha imparato di nuovo a popolare i mercati e i luoghi pubblici. Ci sarà una reazione.
Prima di collegarci mi dicevi che detesti l’esibizionismo “da coronavirus”. Gli artisti nelle loro stanzette a suonare la chitarra in diretta Instagram.
Provo a spiegarti. Io faccio musica perché ho avuto nella vita i miei eroi. Brian Eno non ha mai avuto bisogno di farsi vedere in continuazione. Non mi piace spiare casa della gente. Ormai tutti vogliono sapere tutto di tutti, ecco, io invece non voglio sapere nulla di nessuno. Voglio sognarlo quel musicista, immaginarlo che crea. Anzi, in realtà, non mi interessa neanche lui, ma la sua musica. Insomma mi dà fastidio questo esibizionismo a oltranza. Non amo queste riprese in TV o la musica sui balconi. Io non voglio mettermi al balcone per suonare la mia musica, non voglio dire stronzate sui social. Magari in pigiama. La mia ragazza ogni tanto mi critica “non fare troppo l’artista” – mi fa, ma io faccio quello che mi pare. Non mi va di vendermi. Non mi va di fare la prostituta come altri. Mi metto un cappuccio tuareg anche se non piace. E faccio la mia musica difficile. Teniamolo un po’ di mistero! Alla lunga ripaga.
A proposito, hai detto che in questa fase preferisci più paesaggi sonori che canzoni rock. Quando è scattata la molla?
Dopo l’uscita di “Abracadabra” e “Stereolith”, pubblicati a distanza di un anno tra loro, mi sono accorto di essere molto produttivo ma che questi sforzi forse erano vani. Per tenere in vita certi dischi serve promozione e la promozione costa. Quindi non volevo uccidere gli Ulan Bator scrivendo altri album che non sarebbero mai potuti emergere in mezzo a un mare di altre cose. Quindi ho deciso di tornare all’istintività e all’improvvisazione. I FEEL LIKE BOMBED CATHEDRAL è questo.
Il titolo ha a che fare con “Wicked Gravity” di Jim Carroll? Lui cantava “mi sento come il tetto di una chiesa bombardata”.
Non direttamente, ma magari è un’ispirazione inconsapevole.
Quando prenderà vita il tuo nuovo disco?
Sarà in pre-order da questo weekend sui canali della casa discografica BlindBlindBlind, un’etichetta ungherese composta da gente giovane ed entusiasta. Il disco è stampato in vinile e si intitola “W”.
E gli Ulan Bator invece? Che fine fanno?
È la domanda che mi faccio ogni mattina. Non lo so. Dovrebbe essere qualcosa di puro a stimolarmi qualcosa. Mi voglio prendere il mio tempo per pensarci. Vediamo.