Michael, “Constellations” è il vostro ultimo disco. L’ispirazione è venuta da lassù, dal cielo?
Il titolo si riferisce a un pensiero celeste ed espansivo del mondo, del cosmo, dell’umanità e di quanto possa essere bello e spaventoso l’ignoto.
Il disco appare più scuro rispetto al precedente. E’ una scelta voluta?
Sì, abbiamo voluto fare questo disco più minimale rispetto al suo predecessore. Abbiamo pensato che era troppo comodo continuare a proporre traiettorie che virassero verso l’alto con tempi crescenti e dinamiche di questo tipo, così abbiamo cercato di sfruttare situazioni più moderate e di essere più in bilico nello spazio tra le cose, concentrandoci più su ogni singola nota.
Fino ad oggi avete pubblicato un disco all’anno. Come mai questa fretta?
No assolutamente no, non è fretta. Tutti i dischi sono arrivati in maniera organica e indipendente l’uno dall’altro. Riguardo a “Constellations”, abbiamo viaggiato molto negli ultimi due anni, oltretutto lavorando a nostri progetti alternativi. Quindi non abbiamo avuto molto tempo da dedicare a queste canzoni. Con il nostro prossimo album (che abbiamo già iniziato a registrare), ci prenderemo molto più tempo e non ci daremo una deadline precisa. Speriamo possa giovare alle composizioni e che queste possano prendere forma in maniera naturale.
Cosa sta succedendo in Texas in questi anni? Tantissimi gruppi, molti legati alla musica strumentale. E’ una reazione al luogo?
Non ne sono sicuro. Non so cos’ha portato tutte queste band a fare questo tipo di musica, soprattutto ad Austin, la nostra città, dove c’è una straordinaria concentrazione di musica. E’ difficile seguire tutte le band, ma è bello vivere in un luogo in cui ci sono tante persone che ti assomigliano e cui piace fare le stesse cose.
E’ una vera e propria “scena”? E’ post-rock?
Ad Austin ci sono scene diverse e non saprei come definirle. Riguardo a noi sinceramente mi piace che il nostro suono sia malleabile e che possa significare qualcosa di diverso da persona a persona.
Musica e immagine nei Balmorhea…
Una evoca l’altra. Qualcuna delle nostre composizioni è sicuramente ispirata da ciò che ci circonda, incluso il paesaggio. Le immagini sono anche una componente chiave del nostro packaging e della presentazione della nostra musica.
La vostra anima strumentale verrà mai “tradita” da un cantato più organico?
Diversi di noi, qualche volta, hanno intonato qualcosa senza parole nelle nostre canzoni. Poi c’è abbiamo avuto anche Jesy Fortino dei Tiny Vipers che ha cantato su due brani di “All Is Wild, All Is Silent” e un cantante d’opera in “Candor”. Se poi intendi dire di avere un cantante fisso, con dei testi, etc… mi sembra che la band sia più interessata al lato strumentale della musica. Canzoni con dei testi, magari legati alla realtà… no, non sarebbero i Balmorhea, sarebbero qualcosa di diverso.
Quali sono i vostri riferimenti musicali?
Ascoltiamo roba diversissima. Dal country alla musica old american, dall’indie rock all’hip hop. Influenze precise? Rachel, Sigur Ros, Tortoise e un mucchio di altre cose…
Quelle dei Balmorhea sono “sad songs for sad people”?
L’ascoltatore dà la forma che vuole alla musica: se è triste, allora gli sembrerà triste, se è soddisfatto, ci troverà dentro gioia. E’ un processo camaleontico. Ecco, questo è uno dei grandi pregi della musica strumentale, non ci sono limiti o codici precisi.
Ultima domanda, se ti dico “Cibicida” che cosa ti viene in mente?
Sembra il nome di una vecchia città o di un piatto esotico. Mi ricorda anche un mostro mitologico che si aggira nelle zone rurali delle nostre parti chiamato “Chupacabra” (che si traduce dallo spagnolo con “capra che succhia”). Un essere che uccide mucche e altri animali d’allevamento.