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Black Mountain: psych-rock a 100 all’ora

Qualcosa è andata storta nella più recente storia rock, è un dato di fatto. L’evoluzione s’è ormai arrestata da tanto tempo e quei pochi che ancora si ostinano a pestare i loro strumenti sono per lo più dei nostalgici che suonano per nostalgici. I Black Mountain, con il loro pastone di psichedelia, rock sixties e classicismi vari ed eventuali, non fanno distinzione fin dal 2005, anno in cui hanno esordito con il loro primo omonimo lavoro in studio. Ma tra chi non va oltre il livello “cover band” e chi, come loro, continua egregiamente a coltivare una tradizione, c’è una certa sensibile differenza.

Lo scorso 24 Maggio la formazione canadese ha dato un seguito all’ottimo “IV” del 2016 pubblicando Destroyer (qui la nostra recensione), quinto capitolo di una storia che ultimamente s’era un po’ ingarbugliata: fuori il batterista Joshua Wells rimpiazzato da Adam Bulgasem; fuori soprattutto Amber Webber, che con la sua voce aveva pesantemente – e positivamente, aggiungiamo – segnato la discografia della band. Al suo posto Rachel Fannan, con tutto ciò che ne concerne in termini di riassestamento artistico. Stephen McBean, mastermind dei Black Mountain con le sue trame chitarristiche, ci ha così raccontato di aver affrontato il rimpasto della line-up semplicemente “entrando in una dimensione completamente nuova, evitando di mettersi a fissare e cercare di riprodurre ciò che ormai è passato”, perché “uno specchio non riflette mai il muro di cemento cui è appeso”. Come dargli torto.

Sebbene “Destroyer” trasudi Black Mountain da ogni nota, è chiaro che qualcosa doveva pur mutare dal punto di vista realizzativo e infatti si sente chiaramente la lenta migrazione del loro sound, circostanza che McBean ricollega al modo in cui “abbiamo usato i compressori, macchine simili a quelle che avevamo in passato ma con attacchi diversi e impostazioni leggermente diverse”. Roba apparentemente di poco conto, ma che per perfezionisti del suono come i Black Mountain fa tutta la differenza del caso. L’album, peraltro, ha preso forma in e da circostanze particolari, ovvero la patente di guida finalmente ottenuta da McBean (non a caso c’è una traccia esplicitamente intitolata Licensed To Drive), che ci ha confermato come “la scelta della tracklist del disco è emersa all’interno degli stretti confini della mia automobile, volevo proprio rendermi conto dell’effetto che avrebbero fatto i brani sentendoli alla guida”. Anche stavolta le annacquate session dei Black Mountain hanno dato vita, per stessa ammissione della band, a molte più tracce delle otto finite sul disco, addirittura altre ventidue fatte e (quasi) finite: tranquilli, esistono ancora, non sono andate perse e prima o poi le tireremo fuori”.

Si diceva all’inizio del rischio di trasformarsi in “cover band”, in caricatura musicale, ma quand’è di preciso che questa possibilità si trasforma in triste certezza? McBean usa una metafora strana ma efficace per risponderci: “Questo processo si attiva quando l’illustrazione su cui stai lavorando diventa meno H.R. Pufnstuf (una serie televisiva per bambini del ’69 con pratogoniste delle marionette, ndr) e più Wonder Twins (una serie d’animazione del ’77, ndr)”. In pratica quando fai la stessa cosa ma a distanza di tempo e con mezzi tecnologici più avanzati. E a proposito del trascorrere del tempo, McBean c’ha svelato anche lo “stratagemma” per sopravvivere artisticamente in un’epoca come la nostra in cui ogni cosa cambia e si trasforma alla velocità della luce: “Semplice, basta non guardare mai l’orologio!”. Touché.

I Black Mountain saranno al Rock Planet Club di Pinarella di Cervia (RA) venerdì 9 Agosto per l’unica data italiana del tour a supporto del disco.

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