Sudafricano di nascita, coltivatore per professione, musicista per passione, Gregory Alan Isakov sin dal suo esordio, avvenuto nel 2003 con “Rust Colored Stones”, è riuscito a ritagliarsi uno spazio di tutto rilievo nel mare del folk country di matrice americana. Lasemplicità dei suoni, gli arrangiamenti sognanti e testi estremamente evocativi hanno sempre caratterizzato la sua discografia, creando un filo invisibile tra un cantautore estremamente timido e un pubblico sempre più sedotto dalla purezza dai suoi racconti di viaggio. Unico agricoltore biologico che abbia mai dato in prestito un pezzo da utilizzare come colonna sonora per uno spot di McDonald’s (Big Black Car, dall’album “This Empty Northern Emisphere” del 2009), donando poi il ricavato alle organizzazioni no profit che sostengono la comunità agricola, Isakov vive tutt’oggi una doppia vita, riuscendo a incrociare entrambe le sue personalità, coltivatore e cantautore. Evening Machines, sesto album del cantautore di base a Boulder (qui la nostra recensione), è arrivato sul mercato quasi sul finire del 2018, a distanza di cinque anni da “The Weatherman” (2013), con un intervallo nel 2016 quando ha riarrangiato undici dei suoi pezzi più famosi con l’aiuto della Colorado Symphony Orchestra. Lo abbiamo intercettato tra una data e l’altra della sua tournée mondiale – quasi ovunque sold out, noi c’eravamo a Berlino l’anno scorso – per promuovere un album che ha debuttato al primo posto nella Billboard Chart degli album folk americani.
Gregory, iniziamo parlando di “Evening Machines”: in un tempo totalmente digitalizzato, è davvero uno strano riferimento quello alle macchine utilizzate per alimentare la terra. Simboleggia il piacere di toccare la terra, sporcarsi le mani, percepire consapevolmente un sapore o un odore mentre il resto del mondo si muove in modalità touch screen…
È un tempo peculiare ed è divertente osservarlo dall’esterno! Vivo ogni giorno grazie alle cose di cui mi prendo cura con le mie stesse mani. Ho due lavori: ho una fattoria e faccio dischi! Sento una connessione con le macchine che utilizzo per le colture e continuo a percepirla anche quando stacco tutto e rientro a casa, di sera tardi. Sì, è vero, è un tempo peculiare, soprattutto per il modo in cui viviamo la musica. Adoro ascoltare e toccare la musica con mano, le cassette, i vinili, mi elettrizza l’esperienza del viaggio nell’ascoltare un album, a volte metto su un solo lato di un vinile e lo ascolto in continuazione, convivo con quel lato anche per due giorni. Non ascolto tutti gli album in questo modo, solo alcuni! Lo so, è una cosa un po’ nerd, ma mi fa impazzire! Questo è il mio personale metodo, per cui non trovo corretto dare un giudizio in merito a come le altre persone percepiscano la musica: è una cosa molto intima e personale.
In studio di registrazione il trascorrere di un mese fa si che tu non riesca a toccare nulla di concreto, ma mi piace la sensazione di rincorrere e catturare un’idea mentre compongo la mia musica e so riconoscere il momento in cui trovo qualcosa…
Parlando “Evening Machines” ho scritto che tutto ciò di cui canti e che componi ha vagamente le caratteristiche di un film di Tim Burton. Penso ad esempio alla frase “ali d’argento e donne che stringono lanterne sacre” contenuta in “Berth”, alle sfumature oscure di “Southern Star”, estrapolate da due pagine di libri strappate durante un ritiro poetico in Texas, agli artwork dei tuoi album fino ad arrivare alle sessioni di registrazione che iniziavano solo una volta aver completato il raccolto. Sembra quasi che la ricerca della magia e della conoscenza al di là di tutti i limiti geografici, emotivi e temporali sia davvero un tuo atteggiamento naturale…
Grazie mille, mi piace tanto il punto di vista con cui lo hai descritto. Adoro Danny Elfman e considero sorprendente quel tipo di estetica, non ho mai pensato prima ad accostare la mia musica a quelle immagini. Tim Burton possiede quella sorta di spettralità e magia che non sono percepibili nel mondo terreno.
Quello tra musica e agricoltura è un contrasto che adoro! Rappresentano due processi in cui lo stesso lasso di tempo ha due accezioni del tutto diverse. Considera che per dodici ore al giorno riesco a vedere e toccare tutto quello che faccio, se pianto tre letti di verdure so che cresceranno in trentaquattro giorni. O ancora, so che devo raccogliere le carote in tempo perché i ristoranti possano acquistarle. In studio di registrazione il trascorrere di un mese fa si che tu non riesca a toccare nulla di concreto, ma mi piace la sensazione di rincorrere e catturare un’idea mentre compongo la mia musica e so riconoscere il momento in cui trovo qualcosa: possono volerci cinque minuti, cinque mesi o cinque anni ma quando arriva è qualcosa di fantastico. Nella coltivazione il lavoro è fisicamente sfiancante ma non è paragonabile alle sessioni in studio, fare un album richiede un impegno totalmente diverso in termini di stress fisico e mentale, probabilmente una delle cose più difficili che mi sia capitato di fare.
Ho letto più di una volta che, tra le altre cose, coltivi anche la cannabis medicale. Non è una cosa molto comune, specialmente in Italia, dove è ancora un tabù ed è davvero un grande spreco, visto che la cannabis medicale può dare un grosso aiuto a chi è affetto da alcune patologie neurologiche. C’è stato qualcosa che ti ha fatto percepire l’esigenza di coltivare quel tipo di erba?
Amo quella pianta, ho studiato e lavorato con la cannabis per molto tempo. È una tipologia di coltivazione totalmente differente da seguire, ci vuole molto tempo, soprattutto per far sì che germogli correttamente e prepararla per poterla dare ai pazienti richiede molto lavoro. Coltivo la cannabis a basso contenuto di THC e so bene che non è semplice trovare la varietà giusta, ma per fortuna in Colorado esiste. Amo lavorarla e anche coltivarla, in passato anche fumarla. È una pianta meravigliosa e ha un valore altamente curativo.
Anni fa ti ho scoperto grazie a mio fratello, musicista e insegnante di chitarra, che mi fece ascoltare “Big Black Car”. Uno dei suoi studenti gli chiese di trascrivere uno dei tuoi pezzi per poterlo suonare, se non ricordo male la canzone era “Black & Blue”. Già dai primi secondi di ascolto la percezione della tua musica è estremamente luminosa e contornata da testi molto descrittivi, una sensazione molto simile alla comunicatività di Leonard Cohen e Bruce Springsteen. Solo dopo, leggendo la tua bio, ho scoperto che sono due artisti cui sei molto legato…
Amo sia Bruce Springsteen che Leonard Cohen e sono costantemente alla ricerca di autori come loro, dal mio punto di vista sono immensi. Uno scrittore cui sono molto legato è John Steinbeck, penso seriamente che sia uno dei più grandi songwriter di tutti i tempi e credo che Bruce Springsteen si sia ispirato moltissimo a lui nel suo modo di scrivere.
Adoro ascoltare e toccare la musica con mano, le cassette, i vinili, mi elettrizza l’esperienza del viaggio nell’ascoltare un album, a volte metto su un solo lato di un vinile e lo ascolto in continuazione, convivo con quel lato anche per due giorni.
Ultima domanda: alcune volte, quando tutto sembra essere esattamente al suo posto, mi capita di fermarmi e di non aver alcun dubbio su quello che voglio ascoltare (spesso la scelta ricade su “Living Proof”). C’è un album, un pezzo o un artista di cui senti il bisogno quando tutto sembra perfetto?
Prima di rispondere ti racconto una cosa: mentre componevo e incidevo “Living Proof” ho dato l’anima, ma quando poi ho riascoltato la tape mi sono reso conto che non era per niente come mi aspettavo. Dentro di me suonava perfettamente, ma al di fuori succedeva qualcosa, perdeva calore, emotività. È stato frustrante perché per me quella canzone significa moltissimo e sono felice che sia arrivata a destinazione. Venendo alla domanda, quando tutto sembra essere perfetto non ascolto nulla! Solo silenzio, il respiro dei miei campi, qualche rumore che proviene dalla strada. Quando sono in tour e sento il bisogno di sentirmi a casa metto su Leonard Cohen, a volte “The Ghost Of Tom Joad”.