Umberto, partiamo da una considerazione: “La dieta dell’imperatrice” è un po’ un ritorno a casa per te? Con le tue sonorità, il tuo “mood”, i tuoi testi. Insomma l’hard rock dei Pineda è lasciato indietro…
Innanzitutto Pineda non era un progetto hard-rock, ma psichedelico o almeno con una forte componente visionaria a sprazzi prog… quindi non mi tocca attualmente quella esperienza poichè si trattava di diversa musica e approccio alla stessa e il mio modo di scrivere non è un granché cambiato, anzi in molti momenti è lo stesso, meno disincantato e più classico, forse è questo che mi fa sentire a casa.
In questo senso, perché questo disco è accreditato a Umberto Maria Giardini e non a Moltheni? Ormai odi così tanto quello pseudonimo?
No assolutamente, si tratta solo di un distacco dovuto alla fine di un ciclo e all’inizio di uno nuovo… tutto qui. “Quando una cosa cambia non la si può chiamare con lo stesso nome”.
Tempo fa mi raccontasti il tuo sdegno per la scena musicale italiana. Eri incazzato nero e volevi mollare tutto. Oggi com’è il tuo umore? Cos’è cambiato?
Non ero affatto incazzato nero, né volevo mollare tutto. Stavo assaporando l’idea necessaria di concludere un progetto, un ciclo. In realtà poi non mi sono fermato mai, con Pineda abbiamo iniziato a lavorarci appena dopo, concluso Moltheni. Le mie erano (e sono tutt’ora) considerazioni relative alla situazione musicale rock o indie italiana, patetica.
Parliamo del disco: quando nascono queste canzoni? Ce le avevi nel cassetto da tempo o sono figlie del presente?
No, avevo pochissimo da cui cominciare, e durante i molti mesi ci sono stati anche alcuni grossi cambiamenti sull’idea della band e del suono da ricercare, nonchè delle atmosfere dell’album che sarebbe nato a breve. Il lavoro da zero è iniziato nell’autunno 2011.
L’amore è, come nella tradizione dei tuoi testi, immenso: toglie o dà tantissimo, è “antibiotico” o assente. Come si fa a non banalizzare quel sentimento? Come ci riesci tu?
Lo scrivo come lo penso e lo penso come lo vorrei…
Musicalmente mi racconti chi ti ha aiutato in questo album? E, se c’è un aggettivo che può descriverlo, sei d’accordo con “denso”?
Non so se definirlo denso… io lo vedo più noir, elegante, maturo… e quindi diverso. Oggi si è sempre meno diversi e questo spesso limita i risultati dei pochi, soprattutto quando c’è qualità. L’album tecnicamente porta due padri: Marco Maracas che lo ha scritto insieme a me e Antonio “Cooper” Cupertino che lo ha interpretato, riconosciuto e lavorato in quella maniera, in quella reale maniera. Tutto ciò che si sente è voluto, anche rumori di fondo occasionali degli ampli ad esempio, che abbiamo tenuto volutamente.La band è stata comunque più che determinante, organo e batteria sono strumenti a cui non rinuncerei mai.
“Brillano i denti nelle bocche in tv” scrivi in “Quasi Nirvana”. Ma qual è il tuo Nirvana? Cosa ti fa stare bene?
L’eleganza, chi parla sottovoce, la buona musica, la pulizia, l’arredamento, gli strumenti…
Chi ti aiuta in questo disco? Chi partecipa agli strumenti?
La mia band: Marco Marzo Maracas alle chitarre e pedali, Prof. Giovanni Parmeggiani al piano Rhodes e organo, Cristian Franchi alla batteria. E’ nato tutto da noi quattro dopo mesi e mesi in sala prove, null’altro.
Ti senti di dedicare questo disco a qualcuno?
Sì, lo dedico a chi pur essendo giovane ama la musica elegante… poi lo dedico nel mio cuore a Gianni, un grande conoscitore di musica, commesso in un negozio di dischi in centro a Bologna, amico di tanti discorsi sulla musica internazionale, scomparso all’improvviso lo scorso anno.