La fila fuori dal Teatro Franco Parenti è parecchio lunga, preambolo di quello che sarà il pienone all’interno della sala. Sul palco c’è un grande pianoforte a coda piazzato al centro, sarà lui il compagno di Benjamin per questa sera. Il ragazzone nero si presenta puntualissimo alle 22.30, scalzo come sua consuetudine, con un completo pantalone e giacca di qualche taglia più grande del necessario. Siede ai tasti e si percepisce subito che dietro lo sguardo severo si nasconde spesso, spessissimo un sorriso sincero che durante la serata sfodererà più volte.
I brani dell’album si susseguono uno dietro l’altro, con Condolence e Cornerstone che si confermano anche dal vivo due gemme di rara bellezza: “I am lonely, alone in a box of stone / They claim they loved me but they all lieing”, canta Benjamin con un’intensità che trasuda consapevolezza. Ma l’amore del pubblico, almeno per questa sera, è più che sincero, nessuna menzogna. C’è tempo per un ringraziamento all’Italia con un inatteso omaggio a Lucio Dalla, con la riproposizione della sua Caruso: “I love that song” sussurra Clementine, mentre il pubblico lo accompagna al canto e lo supporta quando qualche parola non gli torna in mente.
Gli occhi fissi puntati sullo strumento si distaccano di tanto in tanto per permettergli di lanciare sguardi profondissimi alla platea, in certi momenti anche di rimprovero per quel chiacchiericcio in sottofondo che disturba l’atmosfera. Ma dura appena un attimo.
Si allontana per qualche istante dal pianoforte prima di ripresentarsi per l’encore: “I don’t know what to play”, ammette mentre accenna qualche nota. Dalla platea di alza un invito: “Jimi Hendrix!”. Benjamin lo raccoglie senza colpo ferire e si lancia in una sua personalissima reinterpretazione della Voodoo Chile del chitarrista di Seattle. L’ennesima dimostrazione di un talento cristallino che pare davvero pronto per spiccare definitivamente il volo.