C’è tempo per una trasfusione di 20 euro dalle mie mani al tizio che, con sguardo privo di espressione, sta al banchetto del merchandise dei Converge. Gran bella t-shirt, mi dico. Voglio anche quella degli A Storm Of Light, i 15 euro di cartellino corrispondono perfettamente al mio attuale potere d’acquisto. Ma prima di procedere con l’ennesimo trasloco di banconote, preferisco vedermeli, gli A Storm Of Light. Non sapevo che nella line-up ci fosse anche una donna alla chitarra, che ne sta alla destra del palco. Al centro c’è Josh Graham che, visto dal vivo, ha l’aspetto del turista americano un po’ bacchettone che sta ritto nella lunga coda per l’ingresso del museo col suo biglietto sventolato a mezzo busto. Se lo vedessi per strada non crederei mai che quello lì sta nella cricca dei Neurosis. Già. Dopo un prolungato sound check che li mette visibilmente a disagio, i quattro partono con alle spalle proiezioni di sequenze di rivolte di piazza, funghi atomici e tutto un collage di caos urbano che dovrebbe essere elemento aggiunto alla performance. E invece sono la cosa più interessante. Il sound apocalittico tipico della band è qui mal riprodotto, l’esecuzione è piatta e priva di dinamiche, Graham è un cantante disastroso. Manca il pathos, manca il coinvolgimento emotivo che tramuta il loro post-core pachidermico in sontuoso muro di suono. Eseguono 5 brani, il terzo è Tempest e lo riconosco solo per il lento incedere iniziale. Mi rendo conto di quanto questo progetto si cibi della celebrità del proprio leader (che, a sua volta, vive della celebrità delle band con cui collabora) e sopravviva perché pompato dai fanatici del genere. In verità valgono poco, molto poco, se non quasi nulla. Seconda grande attesa disillusa.
Sono un po’ sconfortatello. Due gruppi su due deludenti, 20 euro di maglia dei Converge + 20 euro di ingresso, menomale che è appena arrivata la tredicesima a lavoro. Cristo santo. Sono così sconfortatello e deluso che la maglietta degli A Storm Of Light rimarrà lì a fare i vermi e i bachi da seta e se la mangeranno le termiti. Vaffanculo. Mi illudete su disco, poi venite qui a suonare e fate cagare. Band-solo-design-e-niente-sostanza, che brutte cose. A proposito di design, il pubblico è pieno di nerd post-corers, come da pronostico, ma non è comprensibile la massa di hipster accorsa, segno che internet ha definitivamente sdoganato la musica estrema rendendola sempre più appetibile anche a chi la stigmatizzava fino a che non sono comparsi Isis e Sunn O))). Certi gruppi ultramega-pesanti sono sempre stati abbastanza trendy e sfoderarli sull’i-Pod ha sempre fatto bene all’immagine personale. Yeah. Il fatto che ci siano così tanti hipster-non-toccarmi-che-mi-sgualcisco è ovviamente un male per il pogo. Che sarà invero poco, molto poco.
Poco pogo anche per i Touché Amoré, meno famosi degli A Storm Of Light ma più affini ai Converge, dato che vengono dallo screamo. Nota sul cantante, scusatemi: ha un pomo d’Adamo tanto grosso che pare un clitoride laringeo. E poi somiglia orribilmente al mio ex oculista. Davvero. Sono degli sbarbatelli i Touché Amoré, che hanno poi sto nome da effeminati della terza media, santamaria. Non erano già molto nelle mie corde su disco, non mi rapiscono neanche on stage. Ci mettono parecchia grinta, è vero, soprattutto il frontman visibilmente preso bene dalla situazione. Ogni tanto però il batterista da l’impressione di rallentare il tempo, seppur di poco. Brani rapidissimi in cui spiccano alcune idee gradevoli con qualche passaggio vagamente post-rock (il bassista indossa una t-shirt dei Mono, tra l’altro), richiamano a distanza i Drive Like Jehu, ma con i dovuti distinguo. Ciò che mi sorprende di più è che un sacco di marmocchietti presenti conosce le canzoni a memoria e supporta la band con canti corali. Mi spiego solo così perché i Touché Amoré siano gli ultimi e più importanti scaldatimpani della serata. Onore a loro per essersi creati sin d’ora un buon seguito, ma personalmente non vedevo l’ora che si levassero di torno. Anche perché, da qui in avanti sarà solo Converge.
Jake Bannon si scalda come un pugile con felpa e cappuccio mentre il resto della ciurma si sistema sul palco. La tensione sale e la band dà il via alla carneficina. Sparano subito tre grosse granate, i brani d’apertura di tre album: Heartache (“No Heroes”, da cui non vi sarà nessun altro estratto, sigh!), Concubine (“Jane Doe”) e Dark Horses (“Axe To Fall”). Senza sosta, senza respiro, una dopo l’altra arrivano scariche di furia omicida, la chitarra di Ballou ci fa la barba a tutti quanti tanto è affilata e acuminata. Però il Factory, ormai gremito, oltre a evidenziare la sua inadeguatezza in qualità di suoni, temo sia troppo grande per condensare ed esprimere al meglio lo spirito hardcore di una band che non eccede con gli estratti dall’ultimo album “All We Love We Leave Behind”, per lo più piazzati nel mezzo: Aimless Arrow, Trespasses, All We Love We Leave Behind, Sadness Comes Home, A Glacial Pace. Bannon latra come una belva feroce, è in forma nonostante questa sia una delle ultime date del tour. Davanti al palco si infiamma il pogo, ma per il resto è gente troppo educata per sgomitare e infliggersi reciprocamente ferite lacero-contuse. Io stesso non è che abbia tutta sta gran voglia di farmi spaccare il setto nasale. Ma ho percepito un certo distacco tra band e pubblico, con una deficienza affettiva da parte del secondo. Quando poi la cassa della batteria inizia a clippare da metà concerto in poi, diventano due le cose evidenti: posto inadeguato, fonico incompetente. Robe da matti. Temo che l’impianto possa collassare da un momento all’altro, ma i Converge portano a compimento la missione con una prestazione eccellente, macinando riff e urla, cavalcate al tritacarne e furia belluina. Cutter, Axe To Fall, The Broken Vow sono pedate sulla faccia e quando si riducono i bpm e il tempo si fa lento e inarrestabile, i Converge dimostrano tutta la loro intelligenza artistica: Worms Will Feed Rats Will Feast è strepitosa. Per gli encore riservano l’uno-due che apre “You Fail Me”, First Light e Last Light, colpo ben assestato che conferisce all’intero show una fisionomia circolare. 50 minuti secchi e senza compromessi, il fischio alle orecchie che mi ha tenuto compagnia per le successive ore è stato più che gradito.
SETLIST: Heartache – Concubine – Dark Horse – Heartless – Aimless Arrow – Trespasses – Bitter And Then Some – All We Love We Leave Behind – Sadness Comes Home – A Glacial Pace – Cutter – Worms Will Feed, Rats Will Feast – On My Shield – Damages – Axe To Fall – Empty On The Inside – Eagles Become Vultures – The Broken Vow —encore— First Light – Last Light
A cura di Marco Giarratana