Dopo una breve sosta su dei divanetti costruiti con le pedane di legno del mercato ortofrutticolo (sic), alle 21:40 in punto, sull’ampio – parecchio ampio – palco si presentano i Le Gros Ballon. Premetto che prima d’oggi non avevo mai sentito nominare il duo formato da Francesco Campanozzi e Marco Capra, ma essendomi documentato prima di mettere fuori la mia barba da casa, so già cosa attendermi. Hanno all’attivo un album omonimo e l’Ep “La Nuit”, entrambi usciti a pochi mesi di distanza nel 2010. Il duo-nucleo del progetto si presenta con un terzo elemento alla tastiera, il cui compito è creare un avvolgente tappeto a sostegno delle textures di chitarra. Campanozzi e Capra passano dalle rispettiva chitarre al basso e alla batteria anche all’interno dell’esecuzione di un brano sfruttando alcuni frangenti di stasi riempiti dagli effetti. Le chitarre creano ottimi intrecci armonici in quello che è un post-rock in cui pulsa un’anima romantica italo-francese.
Contrattempo: i Le Gros Ballon terminano un pezzo, il tecnico al mixer però è affaccendato in tutt’altro, ovvero a illuminare la parte posteriore dei rack e non nota quindi il silenzio che proviene dal palco, sottolineato dal canale del microfono a zero che impedisce a Capra di ringraziare il pubblico. Quando uno spettatore accanto a lui gli bussa sulla spalla, il tecnico si avvede e apre il canale in fretta e furia. Allontanarsi dal mixer non è cosa buona e giusta, qualcuno lo dica al signor tecnico – che però non commetterà ulteriori errori durante l’arco della serata, anzi, i suoni saranno perfettamente bilanciati. Tornando ai Le Gros Ballon, il duo non disdegna dissonanze negli arpeggi e alcuni passaggi ricordano addirittura i Pink Floyd di mezzo. Molto malinconici e dai sentimenti fragili e autunnali, i motivi melodici sono limpidi e la chitarra acustica di Marco Capra, accordata in do, garantisce il sostegno di bassi che mancano quando nessuno dei due imbraccia le quattro corde. Molto bello il brano finale, in cui si raggiunge l’acme emotivo con un crescendo che richiama a gran voce i Godspeed You! Black Emperor. In appena mezz’ora di performance mi han destato un’ottima impressione. Opening act degno dell’occasione.
Bene, mi sfrego le mani perché attendevo da molto di poter assistere a una performance di John De Leo. Lo ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta a Sanremo nel 1999, presentava “Rospo” coi Quintorigo, una tra le migliori formazioni apparse sulla scena musicale italiana negli ultimi vent’anni (altro che Baustelle e compagnia indie-fintocolta-sinistroide, fatemi la cortesia). Rimasi folgorato, e dire che ero nel bel mezzo del mio periodo Grunge & Tool (che non è mai finito, soprattutto l’amore per la band di Maynard James Keenan), quindi non era poi così scontato che quel quartetto da camera dall’anima rock potesse conquistarmi. La stima per De Leo è sopravvissuta anche dopo la sua dipartita dai Quintorigo e il suo esordio solista, “Vago Svanendo” del 2007, non è ancora stato scalfito dal tempo.
Sono le 22:30 in punto e la band di supporto si dispone sul palco a trapezio isoscele. Non ricordo i nomi dei quattro musicisti, ma posso dirvi che durante la serata imbracceranno i seguenti strumenti (da sinistra verso destra): chitarra semi-acustica; oboe, corno inglese, fisarmonica; clarinetto basso; chitarra elettrica, fisarmonica e altre cosucce. Parte un lungo strumentale che altro non è che Intro 4 Piano Notes da “Vago Svanendo”, che verrà qui riproposto in quasi tutta la sua interezza. De Leo si affaccia per il primo vero e proprio brano, la malinconica L’Uomo Che Continua, in cui ha le corde vocali ancora un po’ fredde. Ma ci vuole pochissimo affinché la sua voce giri a mille: già dai profumi debussyiani della successiva Vago Svanendo cominciano gorgoglii demoniaci e risalite su acuti femminei, oltre a un impressionante repertorio di strumenti simulati con la bocca, che da qui alla fine del set sono: drum machine – spesso campionata con una loop station, strumentista aggiunto; contrabbasso – con tanto di mimica di assoli; armonica; didgeridoo; nonché qualche concessione all’improvvisazione vocale con del sano scat.
De Leo dimostra di essere molto preso dalla sua arte, ma non si chiude a riccio in una prigione autistica, bensì assottiglia la linea che lo separa dal pubblico concedendosi qualche battuta tra un brano e l’altro, senza strafare, senza saccenteria. Di solito i musicisti con un bagaglio tecnico superiore alla media sembra che si esibiscano con un cartellino appeso al collo con su scritto Ce L’Ho Grosso: Ammira Un Po’. Il loro intento è, in linea di principio, dimostrare una netta superiorità al fine di ridurre a brandelli l’autostima dei presenti, lasciarli a bocca aperta e stupefatti e, magari, non concedere nulla sotto il profilo delle emozioni. Onanisti della tecnica, insomma. Per De Leo non è così. I suoi lunghi e frequenti ghirigori vocali sono assolutamente funzionali alle composizioni, abbelliscono con toni e colori le melodie, s’intrecciano con le armonie, si avvitano nell’aria fresca e perfetta di questa sera di metà settembre per pizzicare le corde più profonde dello spirito, quelle che nutrono di linfa artistica la ghiandola pineale. Poi l’autostima, di fronte a una simile padronanza dello strumento vocale, uno può volontariamente calpestarsela da solo, per carità, ma è l’atteggiamento umile e spontaneo di De Leo a colpirmi davvero tanto.
Mentre mi concedo questa digressione, il concerto sta proseguendo e scorrono via i saltelli alla Paolo Conte di Spiega La Vela (in cui il buon John crea una struttura di perfette armonizzazioni vocali con la loop) e due cover di Elvis Costello, che il Vostro Affezionato identifica in I Almost Had A Weakness e Romeo’s Seance. C’è spazio per l’unica gittata d’occhio al passato nei Quintorigo con la calda Precipitango (da “Grigio”) e poi la sempre divertente Tilt, interpretata con parecchio humour. Ogni tanto sul palco il microfono rompe cordialmente il cazzo risuonando nelle spie e, in tutto questo, la dannata pizza pre-concerto che ho fagocitato si accomoda braccia conserte sul mio stomaco per godersi lo spettacolo, a scapito della mia sete – avevo i soldi contati, niente gadget e niente seconda birra, quindi – e sudorazione. E’ la volta di Stormy Weather, meravigliosa odissea di oltre dieci minuti in cui il vocalist romagnolo parodia i crooner anni Cinquanta, Elvis Presley, Bob Marley, Louis Armstrong in un vasto repertorio di stili che tocca anche urla deeppurpleiane (Mark II) e si chiude su una possente coda hard-rock.
Una nota d’elogio va spesa per i componenti della band: gran gusto nei suoni, eccellenti nelle dinamiche, tecnicamente preparati eppure mai eccessivi o inopportuni. Bravissimi. Prima che cali il sipario, dopo la consueta e illusoria uscita di scena con lesto rientro sul palco, arriva un’ottima interpretazione di Amore Che Vieni, Amore Che Vai di De André, in cui scorgo punte atonali in stile “Larks Tongue In Aspic” dei King Crimson in alcuni ricami di chitarra. Giuro, in tutti quei tortuosi passaggi vocali che ho ascoltato, De Leo avrà stonato sì e no tre volte. Una media infima, v’assicuro.
Finisce questa serata senza nessun brano inedito, senza nessuna notizia su un eventuale disco in lavorazione o in uscita. Io e gli oltre duecento presenti aspettiamo con ansia buone nuove, ma stasera siamo profondamente soddisfatti.
* Foto d’archivio
A cura di Marco Giarratana