Un progetto artistico clamoroso (quantomeno nella sfera del rock britannico), un singolo d’apertura che è già un semiclassico, appena tre concerti europei oltremanica (Berlino, Parigi, Milano): parliamoci chiaro, gli indizi affinché al Fabrique andasse in scena un vero e proprio evento c’erano tutti. Per Liam Gallagher e John Squire i biglietti (75 euro per un’ora di live) sono andati polverizzati pochissimo tempo dopo la prevendita, con presenze da tutta Europa: la quota straniera all’interno del club milanese è altissima. Ad aprire la serata è fortunatamente Jake Bugg. L’avverbio usato non è casuale, perché con un prezzo così alto per un’ora di concerto, un artista di supporto importante era praticamente d’obbligo. L’ormai trentenne cantautore di Nottingham si presenta da solo sul palco, solo lui e la sua chitarra: l’assenza delle percussioni si fa notare e toglie un po’ di verve, ma il ragazzo tiene la scena in un modo incredibile, complici la sua voce magnetica e alcuni brani memorabili (Two Fingers e Seen It All su tutti).
Finita l’esibizione di Bugg, il Fabrique si riempie definitivamente con gli ultimi arrivati. È stracolmo. Squire, Gallagher e la loro band salgono sul palco sulle note di “Ski-ing” di George Harrison, scelta azzeccatissima. L’esordio è col botto: si parte con quella Just Another Rainbow che ha indubbiamente una marcia in più rispetto al resto dell’album, una gemma creata da Squire e valorizzata alla perfezione dalla voce di Gallagher. I due sono perfettamente complementari sul palco: hanno l’uno bisogno dell’altro, con la chitarra di Squire (e il resto della band, affiatatissima) che libera finalmente la sempre impressionante statura scenica di Liam dal passato degli Oasis, indirizzandolo finalmente verso nuovi – seppur parziali – orizzonti. Non creiamo malintesi: la figura del più giovane dei fratelli Gallagher sarà per sempre legata alla band di Manchester, ma l’effetto “cover band” nei suoi pur sempre memorabili live solisti faceva sempre capolino nelle orecchie dei presenti, come se parlassimo comunque di una brutta copia dell’originale.
Qui invece si respira aria nuova: ed è allora tutto sommato un bene che non si siano inserite canzoni degli Oasis o degli Stone Roses in scaletta. L’unica concessione “extra” rispetto all’album d’esordio del progetto, che comunque dal vivo suona una meraviglia (tutti i brani hanno una resa migliore eseguiti live: ci piace ricordare il finale coinvolgente di I’m So Bored) è la stonesiana Jumpin’ Jack Flash. Un’altra cover non avrebbe certo guastato, ma tutto sommato sono dettagli. Le luci si accendono, la gente balla ancora e poga con la musica di sottofondo, quella che si usa mentre si smontano il palco. C’è ancora ressa nelle prime file per accaparrarsi una setlist o un plettro. È stata una serata breve, ma una grande serata.