Giunto alla sua decima edizione, il Primavera Sound Porto si sta rivelando sempre più una validissima alternativa alla “originale” e ormai leggendaria edizione di Barcellona (da quest’anno a farle concorrenza è nata anche quella “gemella” di Madrid, che però a quanto si dice pare aver subito lo scotto dell’esordio). Il motivo è presto detto: una line-up meno affollata ma non per questo qualitativamente inferiore, che consente agli organizzatori di dividere il tutto in meno palchi (cinque, praticamente la metà di quelli di Barcellona) e in più giornate (quattro anziché tre). Il risultato è una fruibilità difficile da riscontrare in festival di queste dimensioni, con spostamenti di pochissimi minuti da un palco all’altro, con la possibilità dunque di riuscire a vedere quanti più concerti possibile, con pochissime − praticamente nessuna − file per accedere ai vari servizi (tantissimi i bagni, così come gli stand per il ristoro). Senza dimenticare la questione costi, decisamente più contenuti sotto diversi punti di vista, a partire da biglietti e abbonamenti. Il maltempo dalle parti di Porto non è certo una novità, qui piove spesso in ogni periodo dell’anno ed è toccato anche al pubblico del Primavera Sound doversi sorbire un po’ d’acqua, soprattutto il primo e parte del secondo giorno: dopo il fango creatosi al Parque da Cidade nel corso del day 1 (parliamo pur sempre di un parco pubblico con erba e terra, niente cemento), l’organizzazione ha però prontamente provveduto a tappezzare il più possibile le aree più infangate del festival con ghiaia et similia, rendendo la situazione decisamente più vivibile in attesa che il sole facesse il resto. I cinque palchi (Porto, Plenitude, Vodafone, Super Bock e Bits) non si disturbano affatto fra loro nonostante la vicinanza e, cosa affatto scontata, suonano tutti molto, molto, molto bene. Un’esperienza decisamente positiva e consigliata, finché le condizioni resteranno queste.
– DAY 1 –
7 GIUGNO
UN POETA SOTTO IL DILUVIO DI PORTO
Crediamo possano esserci pochissimi dubbi riguardo ciò che stiamo per dire: Kendrick Lamar è uno dei songwriter più importanti della sua generazione e non solo. E non c’entrano nulla il rap, la trap, il pop, il rock o chissà cos’altro, è qualcosa di trasversale che va ben al di là delle etichette e dei generi. Sul main stage del Primavera Sound Porto ci arriva da solo Kendrick, senza il corpo di ballo onnipresente e i giochi di telecamere che lo accompagnavano quando l’avevamo visto la scorsa estate a Milano, circostanza che riesce inevitabilmente ad enfatizzare ancor di più il suo rappato. La setlist di Lamar è impressionante per il livello che raggiunge e che non cala mai di un millesimo, con tracce estratte da tutti i suoi lavori, incastrate fra loro in una inarrestabile sequenza di più e meno velate invettive. Il diluvio che dall’alto flagella il pubblico fa il paio con il fango che ricopre i piedi, ma se possibile crea un’atmosfera ancora più magica intorno alla performance di Lamar: è una lunga discesa nella contraddittoria attualità statunitense quella di Kendrick, non è solo rap, non è solo un flow dalla sconfinata efficacia, non è solo parole taglienti come lame di un rasoio. Kendrick Lamar è a tutti gli effetti poesia, ed è una valutazione che prescinde il gusto personale per generi ed etichette.
Fresco di un nuovo featuring proprio col cugino-fenomeno Kendrick (ma ha già collaborato anche con gente come Kanye West e Travis Scott, giusto per non farsi mancare nulla), anche Baby Keem sciorina per trequarti d’ora il suo hip hop poco classico, comprese quel paio di mine che gli sono valse la popolarità mondiale, ovvero Orange Soda e Family Ties, quest’ultima proprio in chiusura del suo set (e che ripeterà anche successivamente, insieme a Kendrick, proprio durante il suo live). Dopo Baby Keem e in attesa di Kendrick ci dirigiamo al Vodafone (a proposito, nella prima giornata del festival i palchi operativi sono solo due, per l’appunto il Vodafone e il main stage Porto) per The Comet Is Coming: la creatura (una delle) di Shabaka Hutchings fa il consueto lavorone sulle atmosfere, con quei crescendo di sassofono che hanno reso Shabaka un’istituzione e che condiscono in maniera prepotente lo psych-jazz-space del trio. Suggestivi a dir poco, al netto delle impareggiabili e innegabili doti tecniche.
In apertura del nostro Primavera Sound Porto ci godiamo invece l’inglese Georgia, con il suo synthpop accattivante: Barnes sta lì sul palco da sola, a ballare e saltellare in mezzo alla drum machine e ai pad che dettano i tempi dei suoi pezzi. E poi Alison Goldfrapp: uscita da pochissimo con “The Love Invention”, il suo esordio da solista, Alison intervalla nella setlist i brani del disco alle tracce più conosciute del duo che compone insieme a Will Gregory da ormai oltre due decenni. Quindi c’è Train, c’è l’arcinota Ooh La La e c’è Strict Machine, che messe in sequenza con i nuovi brani di Alison lasciano intendere come non è che si sia discostata così tanto da ciò che ha sempre proposto.
– DAY 2 –
8 GIUGNO
IL DIROMPENTE INCANTO CATALANO
L’idea iniziale era quella di dividersi tra il Super Bock, dove vanno in scena i Bad Religion, e il Porto, dove è prevista l’headliner della serata Rosalía: iniziamo da lei… e ci finiamo anche. Ci perdoneranno Greg Graffin e i suoi, ma la performance della popstar spagnola è magnetica, ti tiene con gli occhi incollati al palco non tanto − o meglio, non soltanto − per le sue hittone che ormai si sentono a ogni angolo, ma quanto soprattutto per l’interpretazione che Rosalía dà delle sue canzoni. La cantante spagnola è incantevole, bravissima nel riportare con lo sguardo e le movenze le parole dei suoi pezzi, aiutata da una scenografia minimale e da ballerini che l’accompagnano e formano con lei quasi un unico corpo, il tutto senza mai scadere in quella volgarità che è sempre dietro l’angolo quando si tratta di musicalatinismi o giù di lì. Le fa tutte le hittone di cui sopra, fa Bizcochito e La Fama, fa Linda, Despecha e Motomami, fino a Chicken Teriyaki, che imballa letteralmente la platea del Porto. Il consiglio è: se potete, andate a vederla almeno una volta.
Nel pomeriggio, dopo esserci goduti il gradevolissimo set dei neozelandesi The Beths, facciamo il pieno di alcune delle nuove uscite più interessanti degli ultimi mesi. Per primi tocca agli irlandesi The Murder Capital, tra le band che aspettavamo di più con il loro “Gigi’s Recovery” che, uscito a Gennaio, li ha confermati sugli altissimi livelli cui si erano attestati con l’esordio “When I Have Fears” del 2019: il Plenitude finisce per essere la testimonianza viva e tangibile di ciò, James McGovern si atteggia con la credibilità di un James Dean che ha scelto un’altra strada rispetto al cinema, ma è tutta la band a picchiare come dei forsennati (una More Is Less al cardiopalma fa tutta la differenza de mondo) e a riscaldare la temperatura lì sul prato, ben più del sole non particolarmente cocente. Se per vedere i The Murder Capital rinunciamo agli Shellac, sacrifichiamo invece gli Alvvays (già, un peccato) per non perderci Arlo Parks: tra “Collapsed In Sunbeams” (2021) e il nuovissimo “My Soft Machine” l’artista inglese ha colpito nel segno come pochi altri negli ultimi anni e sul main stage di Porto dà una prova inoppugnabile del suo talento. Gaz Coombes l’avevamo visto all’opera già pochi mesi fa a Milano e c’era piaciuto così tanto che rieccoci di nuovo di fronte a lui: band affiatatissima, dei suoni cesellati nel burro (anche in una location all’aperto come quella di Porto, cosa tutt’altro che scontata) e quel disco, l’ultimo “Turn The Car Around”, che è il vero gioiellino alt-indie-pop della carriera solista dell’ex Supergrass.
Che dire dei The Mars Volta: è chiaro che il ritorno di Cedric Bixler Zavala e Omar Rodríguez-López ha avuto tutt’altro sapore rispetto alla prima versione della loro creatura post At The Drive-In, perché il nuovo omonimo album è il cosiddetto “il ragazzo è intelligente ma non si applica” e perché la band non è più la stessa di un tempo. E infatti dal disco dello scorso anno tirano fuori la sola Graveyard Love, mentre per il resto sono solo brani da quel capolavoro che è “De-Loused In The Comatorium” (2003) e da “Frances The Mute” (2005), con la conclusiva Inertiatic ESP che da sola vale quasi l’intero set. Ad avercene di chitarristi come Omar e di voci come Cedric.
Nessun altro clash avrebbe potuto imporre di scegliere fra due realtà talmente distanti fra loro come quello tra Fred Again.. e Gilla Band. Nonostante non sia esattamente la nostra cup of tea iniziamo dal producer britannico: la collina del Vodafone è un magma di gente in visibilio, una leggera pioggia ricomincia a cadere dal cielo ed oggettivamente ci troviamo di fronte a un artista che sa come tenere in pugno un pubblico anche così ampio e fuori dalla comfort zone dei club. Sui Gilla Band c’è davvero poco da dire se non che la formazione irlandese incarna alla perfezione il versante più noise oriented dell’attuale scena post punk, dal vivo persino più sporchi e cattivi che su disco. E se Shoulderblades non vi tira fuori dal petto un demone, beh… avete un problema.
– DAY 3 –
9 GIUGNO
SUONI DA UNA GALASSIA LONTANA
Avete mai partecipato a uno dei viaggi organizzati dalla premiata ditta Darkside? Se sì, potete benissimo immaginare di cosa parliamo quando vi diciamo che a Porto salgono sul palco alle 02:00 di notte, con le luci che riflettono nella spolverata di pioggia che cade ancora e il fumo che li avvolge. È un’esperienza ai confini del mistico prendere parte alla lunga processione di Nicolás Jaar e Dave Harrington dalla Terra allo Spazio e ritorno: la voce di Jaar che ogni tanto viene fuori come da un buco nero, le trame di Harrington che s’intrecciano fra loro in modo narcolettico prima e in extrasistole subito dopo, le percussioni avvolgenti, suoni da una galassia lontana che trasformano la collina del Vodafone in un’astronave senza meta.
E da una galassia lontana deve necessariamente venire anche St. Vincent, lei aliena dalle meravigliose sembianze umane. Avevamo già sentito, da chi l’ha vista all’opera nelle più recenti date del suo tour, dello stato di grazia in cui si trova (ma in cui in realtà si è sempre trovata, a memoria non ci risulta abbia mai avuto alcun “calo”), ma a trovarsela di fronte cambia davvero tutto: Annie è ispiratissima, scende giù dal palco durante New York per cantarla a contatto con le prime file, tra una strofa e l’altra trova anche modo di firmare un autografo, s’abbandona del tutto al suo pubblico e ritorna sul palco intonsa, come se decine di mani non l’avessero mai toccata. Ed è ascoltando il suo set, che prevede brani estratti praticamente da tutti i suoi dischi, che ci si rende conto di quanto abbia fatto Clark e a che livelli qualitativi.
Gli headliner della serata sono invece i Pet Shop Boys, un pezzo bello grosso di anni Ottanta che non ha mai smesso di far musica dagli esordi a oggi: magari abbiamo beccato noi la serata sbagliata, magari Neil Tennant e Chris Lowe avrebbero potuto articolare il loro set in maniera diversa (intendiamo la scaletta), fatto sta per quanto ci riguarda si tratta di una delle performance meno coinvolgenti dell’intero festival. Il confine tra il greatest hits e il karaoke a volte rischia di essere davvero molto labile.
La dance che incontra il punk de Le Tigre è ritornata a farsi sentire ed è presente anche al Primavera Sound Porto: occasione imperdibile per vedere all’opera un progetto così peculiare come quello messo in piedi ormai a fine secolo scorso da Kathleen Hanna. A pensarla così devono essere in molti, visto che la collina del Super Bock è stracolma di gente, Le Tigre si lanciano in un set tiratissimo che, nonostante l’orario (iniziano alle 00:40) e qualche ormai consueta spruzzata d’acqua dall’alto, accende e non poco il pubblico. Nel pomeriggio invece è toccato dividerci tra Blondshell e Wednesday, entrambi usciti quest’anno con i loro rispettivi nuovi album (un esordio per Blondshell): Sabrina Teitelbaum propone praticamente tutto ciò che ha inciso, compresa la cover di Disappointment dei Cranberries, mentre i Wednesday si dimenano tra alternative rock, indie rock e shoegaze con una naturalezza e un’efficacia che sono il motivo per cui in molti parlano di loro.
Sul progetto NxWorries di Anderson .Paak e Knxwledge se ne sono dette tante ultimamente, riguardo soprattutto la loro mancata resa dal vivo. Beh, non sappiamo bene quali fossero le aspettative di chi è non è rimasto soddisfatto dalle loro performance, ma sul palco del Primavera Sound mettono in scena esattamente ciò che ci aspettavamo facessero, tra soul, funk, r’n’b d’annata e un’atmosfera chill che Anderson .Paak padroneggia con la classe che lo contraddistingue. Insomma, un suggestivo aperitivo al tramonto del Vodafone.
Poco prima, invece, sul Super Bock va in scena uno degli artisti che aspettavamo di più, Pusha T, che avrebbe dovuto passare anche dall’Italia ma che per X motivi non è mai riuscito a farlo nonostante rinvii su rinvii. Terrence LeVarr Thornton, questo il suo vero nome, è un fenomeno dell’hip hop e non era certo questa l’occasione di dimostrarlo, ma giusto per essere chiari: il suo set è dinamite allo stato puro, il flow dell’ultimo “It’s Almost Dry”, uscito lo scorso anno, impatta come una bomba atomica sul pubblico e King Push è in splendida forma fino a Grindin’, pezzo dei Clipse che Pusha T replica da solo in chiusura conquistandosi il nostro personalissimo podio dell’intero Primavera Sound Porto 2023.
– DAY 4 –
10 GIUGNO
ALL THE PEOPLE, SO MANY PEOPLE
Quante persone, già. Il colpo d’occhio del palco principale del Primavera Sound Porto è davvero d’impatto, sembra quasi − e probabilmente è così davvero − che tutti i presenti al festival si siano dati appuntamento in attesa dei Blur. La band, inizialmente prevista per le 00:50, si fa attendere anche un quarto d’ora accademico, il che favorisce il deflusso dal Vodafone, dove stanno finendo di esibirsi i New Order, verso il Porto: mossa intelligente (se voluta) quella di far ritardare qualche minuto i Blur, visto che si tratta verosimilmente dello stesso pubblico per entrambe le band. Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree, che stanno per tornare con il loro nuovo album, sono in una forma a dir poco smagliante e snocciolano, come già accaduto nelle prime date di questo loro tour, un repertorio che è un vero e proprio best of: durante There’s No Other Way Albarn scende in transenna, s’inerpica sulle prime file e incita la folla, poi arrivano Beetlebum, Coffe & TV, Country House, una Parklife cantata a squarciagola pure dalle persone appollaiate sui balconi dei palazzi adiacenti al Parque da Cidade, Girls & Boys, Song 2, Tender che come consuetudine diventa un sing along e il finalissimo con The Universal. Le anticipazioni dal nuovo lavoro in studio sono due: la prima, sul finale di set, è il singolo The Narcissist, mentre la seconda, proprio in apertura, è St. Charles Square.
Dicevamo dei New Order: magari la scelta di non farli suonare sul main stage (unici headliner a non salirci, peraltro) finisce per penalizzarli un po’, visto che la collina del Vodafone è piena a tappo fino alle file di alberi che la confinano, forse avrebbero meritato ulteriore spazio per favorirne la fruibilità. Detto ciò, da istituzioni quali sono Bernard Sumner (la sensazione è che sia un po’ a corto di fiato) e gli altri tirano fuori dal cilindro il solito set di classici intramontabili, con l’inizio affidato a Regret ed Age Of Consent che è vera e propria magia, così come la chiusura in cui Blue Monday, Temptation e l’omaggio a Ian Curtis/Joy Division Love Will Tear Us Apart danno un quadro chiaro (qualora ce ne fosse bisogno) di chi abbiamo di fronte.
Nel primo pomeriggio i canadesi PUP sono stati una vera sorpresa, dal vivo molto più irruenti (e ce ne voleva, eh) rispetto ai loro quattro lavori in studio. Davvero una bella scartavetrata, giusto per iniziare bene la giornata. Giornata che continua con gli Yard Act: la band di Leeds è una delle più in vista della nuova ondata post punk e se ne capisce facilmente il motivo: tengono il palco come pochi, hanno un sound mistionato con elementi tra i più disparati (il che dà una certa imprevedibilità a una formula che per sua natura rischia sempre di essere un po’ stantia) e soprattutto hanno i pezzi, vedi quella The Overload che fa letteralmente esplodere il pubblico, punta di diamante e title track del loro primo e finora unico album, uscito lo scorso anno.
Dopo un passaggio dal Plenitude, dove la giovanissima Flowerovlove dà un saggio del suo talento alt-pop dagli enormi margini di crescita, ci dirigiamo nuovamente al Porto (dove avevamo già visto gli Yard Act) per gli Sparks: i fratelli Mael non hanno bisogno di biglietti da visita, il loro art pop, art rock o quel che è ha segnato in modo profondo un certo modo di fare musica e continua a farlo, visto che il loro ultimo “The Girl Is Crying In Her Latte”, uscito giusto qualche settimana fa, si è rivelato ancora una volta un disco di spessore. Live hanno un’ottima band che ne supporta le elucubrazioni stilistiche e i due non sembrano subire troppo il passare del tempo, mantenendosi sempre incisivi.
La scelta difficile, tra le più difficili tra quelle compiute nella quattro giorni di Porto, dobbiamo farla con la concomitanza assoluta tra Julia Holter e i Karate. Scegliamo salomonicamente di dividerci fra i due act, facendo la spola dal Plenitude al Vodafone. Per prima tocca a Holter: la songwriter di Milwaukee sembra sempre su una nuvola, sempre in bilico tra la sofficità delle sue interpretazioni e una potenza lirica ben più pesante di quanto possa apparire. Ci godiamo la splendida Sea Calls Me Home e un’altra manciata di pezzi prima che sia la volta dei Karate: la reunion dello scorso anno ci ha restituito una formazione fondamentale dell’indipendente americano, e la nutrita presenza sotto il loro palco fa capire come ci sia ancora bisogno di band come questa (lo stesso Geoff Farina si lascia andare a un “è bello vedere ancora così tanta gente per una rock band”). Loro ci mettono la precisione che li contraddistingue e, quando sul finale parte Sever, è sempre un pugno nello stomaco.
E adesso veniamo a Yves Tumor, per quanto ci riguarda uno degli highlight assoluti dell’edizione 2023 del Primavera Sound Porto. Eravamo molto curiosi di vedere all’opera Sean Bowie e la sua band e le aspettative sono state ampiamente ripagate: semplicemente devastante il suo set, marcissimo, rumorosissimo, dannatamente punk nell’attitudine pur non avendo tanto a che vedere col punk musicalmente. Gospel For A New Century e Kerosene!, da quel capolavoro che è “Heaven To A Tortured Mind” del 2020, si rivelano anche dal vivo letteralmente atomiche, ma è con i brani del nuovo “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”, uscito quest’anno, che il progetto Yves Tumor mostra appieno ciò che è: un’infernale macchina del disagio, con God Is A Circle, Echolalia e Meteora Blues sugli scudi di un Super Bock annichilito. Dieci e lode su tutta la linea.