Quattro donne londinesi, vestite di nero, molto incazzate ed estremamente determinate. Sonorità cupe e dirompenti che richiamano al post-punk anni ’80, genere che in molti hanno cercato di riproporre, ma pochi sono riusciti a rivitalizzare. Non è un caso che l’età media, stasera, si aggira tra i trenta e quarant’anni. La ricerca di qualcosa di essenziale è già chiara all’ingresso del club, dove un cartello incita il pubblico a non scattare fotografie e video con il cellulare, per immergersi completamente nell’esperienza.
A note from Savages: Our goal is to descover better ways of living and experiencing music. We believe that the use of phones to film and take pictures during a gig prevents all of us from totally immersing ourselves. Let’s make this evening special. Silence your phones.
Riconnettersi con la musica in maniera viscerale e allo stesso tempo riappropriarsi del silenzio, questo l’intento. Lasciare da parte inutili orpelli, figli di un’età in cui stiamo perdendo di vista l’essenziale e non riusciamo più a concentrarci, disturbati da un rumore costante. Non a caso il titolo dell’album d’esordio è proprio “Silence Yourself”. La loro performance, poi, sarà la perfetta estensione di tutto questo. Sulla copertina del disco si legge: “Una volta il mondo era silente, ora ci sono troppe voci. E il rumore è una distrazione costante. Si moltiplica, intensifica, svierà la tua attenzione verso qualcosa di più conveniente, e si dimenticherà di dirti chi sei…” (Manifesto #1).
Alle 23.00 entrano le quattro Savages. Il palco è basso e privo di transenna, meno di un metro mi distanzia da loro. Jenny Beth, frontman carismatica, capelli corti e tacchi alti, squadra il pubblico con occhi tenebrosi. La bassista, Ayse Hassan, è schierata a destra, davanti a me, terrà in piedi la sezioni ritmica con perizia impeccabile, ad occhi chiusi per tutto il concerto. A sinistra la chitarrista Gemma Thompson, lo sguardo nascosto da una lunga frangia, imbraccia la fender azzurra e comincia a dipingere un’inquietante foresta sonora. E’ il feedback di I Am Here a dare l’avvio al set. Il ritmo martellante ed ipnotico di Fay Milton ci fa entrare subito nell’atmosfera. “I am here… No more fear… No more dark shadows…”. Segue “una canzone dedicata a tutte le ragazze snelle e carine. E ai ragazzi” si tratta del (già classico) City’s Full. “So many skinny pretty girls around… Honestly, I just wanna go down… Try to pretend there’s nothing wild… Why do you treat so bad…”. Si sprigiona energia femminile allo stato puro, in un crescendo folgorante. Il pubblico apprezza e comincia a scaldarsi. Jenny tiene il ritmo sferzando pugni nell’aria, a canzone conclusa commenterà: “mi piace la gente che balla, è la cosa che preferisco” e Ayse parte con il basso di Shut up, mi viene in mente lo scorcio di conversazione tra Gena Rowlands e Joan Blondel nel film “Opening Night” di Cassavetes, inserito come introduzione dell’album, in particolare la frase: “I’m trying to be patient”.
Su Waiting For A Sign penso a come debbano essersi sentiti spiazzati i primi spettatori dei Joy Division o di Siouxsie And The Banshees. Note dilatate e stridenti, sorrette da un basso compulsivo. She Will sembra uscita direttamente dalla penna di Ian Curtis. Jenny impugna il microfono, si muove per il palco. E’ già una frontman sicura ma ha ancora grosse potenzialità.
In scaletta c’è spazio per qualche inedito: dall’urlata I Need Something New a Flying To Berlin, inclusa nell’EP del singolo “Husbands” ed ispirata a quel momento in cui “pensi che l’aereo su cui stai viaggiando debba schiantarsi al suolo, e hai davvero paura di morire”. Dopo No Face Jenny commenta “c’è un gran silenzio per una canzone così rumorosa” e inizia Hit Me, un testo ispirato ad un documentario sulla pornostar Bella Donna, che analizza la ricerca di piacere da esperienze estreme.
Gran finale con Husbands e Fuckers; la prima è uno sfogo di una donna esasperata da un rapporto coniugale soffocante, mentre la seconda viene presentata così: “Un amico una mattina ha lasciato un biglietto sul frigorifero con scritto ‘Don’t let the fuckers get you down’ e ho cominciato a pensare che forse, prima di pensare di avere io un problema, ero circondata da teste di cazzo. Questa canzone è dedicata a tutti quelli che stanno passando un brutto perido, si chiama Fuckers”. Un lungo mantra di dieci minuti con una batteria tribale, in cui il cantato ripete ossessivamente: “Don’t let fuckers get you down.., Don’t let the fuckers get you down”.
Dopo un’ora e pochi minuti si chiude il sipario, nessun bis previsto ma poco importa, non capita tutti i giorni di venir investiti da un scarica di energia femminile tanto strabordante.
SETLIST: I Am Here – City’s Full – Shut Up – I Need Something New – Strife – Waiting For A Sign – Flying To Berlin – She Will – No Face – Hit Me – Husbands – Fuckers