Lo ammetto, nonostante segua i Sigur Ros fin dagli esordi e conosca tutti i loro album, fra me e loro non s’è mai instaurata una corrispondenza emotiva tale da poter sfociare in amore, fermo restando l’apprezzamento per lavori evidentemente di altissimo livello. Ma, si sa, è faccia a faccia che bisogna confrontarsi, quindi l’occasione di poterli “incontrare” per la prima volta era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. La location – e questo è un dato inconfutabile – non è di certo il non plus ultra per una proposta sonora fortemente atmosferica come quella degli islandesi; per di più, il Mediolanum Forum di Assago avrebbe dovuto essere stracolmo, ma a quanto pare il concetto di sold out non è universale, dato che il parterre (i cui biglietti erano andati a ruba in pochi giorni) è vuoto per circa un terzo della sua profondità, mentre le tribune si andranno mano a mano a riempire del tutto. Il palco che ci si trova davanti non appena entrati è un enorme “baldacchino”, con teloni bianchi che ne coprono tanto i lati quanto il fronte, rendendo praticamente impossibile vedere cosa accade all’interno. Ed è per questo che di Benjamin John Power – metà Fuck Buttons qui a supporto dei Sigur Ros col suo progetto solista Blanck Mass – riusciamo a percepirne la presenza fisica solo per la drone-ambient che si propaga per circa 20 minuti all’interno del palazzetto.
Alle 21.30 bollate è la volta dei Sigur Ros, o sarebbe meglio dire dell’orchestra Sigur Ros, dato che come di consueto i tre (Kjartan Sveinsson ha da poco lasciato) si accompagnano ad almeno altri 7/8 musicisti che contribuiscono enormemente al muro di suoni della band. Ma la decina di soggetti on stage sarà visibile solo dopo qualche pezzo: per i primi brani, infatti, i teloni bianchi non solo non cadono, ma diventano oggetto di proiezioni d’immagini e luci, qualche sagoma si profila di tanto in tanto, ora enorme ora minuscola a seconda del gioco di ombre offerto dalle luci colorate.
Quando i teloni vengono lasciati cadere, Jonsi è lì al centro del palco con la sua chitarra e l’immancabile archetto da violino per tirarne fuori le note. La scaletta offerta dagli islandesi al pubblico milanese è piuttosto variegata, pescando qua e là nelle discografia della band: si va da Í Gær (“Hvarf – Heim”) a Ný Batterí e Olsen Olsen (“Agaetis Byrjun”), da Sæglópur e Með Blóðnasir (“Takk…”) agli untitled Vaka ed E-bow (dalle parentesi del 2002), dalla recente Varúð (“Valtari”) a brani nuovi e ancora inediti come Yfirborð, Brennisteinn e Kveikur, provati dal vivo in vista di una nuova pubblicazione. Neanche a dirlo, a catalizzare l’empatia del pubblico ci pensano i due pezzi di “Takk…” fra i più famosi della band, ovvero Hoppípolla prima e Glósóli poi: le esecuzioni, di questi come di tutti i brani, sono impeccabili, la forza chitarristica è dirompente rispetto alle relative incisioni su disco e a guadagnarne è l’impatto complessivo. Jonsi proferisce solo qualche parola, qualche flebile “grazie” fra un pezzo e l’altro.
E’ proprio alla fine di “Glósóli” che l’ensemble abbandona le postazioni prima del consueto encore: ad iniziarlo c’è Svefn-g-englar, caposaldo della produzione degli islandesi estratto da “Agaetis Byrjun”, l’inedito Hrafntinna (anch’esso già eseguito parecchie volte dal vivo dalla band) e la conclusiva Popplagið, altra untitled dal lavoro del 2002. Dopo due ore di performance i Sigur Ros lasciano il palco, salvo ritornarci poco dopo per i ringraziamenti di rito in stile decisamente teatrale: tutta l’orchestra s’inchina al pubblico e giù di nuovo. Gli applausi non tendono a scemare e i Sigur Ros tornano nuovamente ed elegantemente sul palco per un ulteriore ringraziamento, questa volta con in mano una bandiera italiana con su la scritta “Takk” (“grazie” in islandese). E’ davvero tutto, s’accendono le luci e la folla comincia ad abbandonare il Forum. Magari non sarà ancora amore, ma un bel passo avanti nella “relazione” fra me e i Sigur Ros è stato adesso compiuto.
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