Non sono poi così tante (tutt’altro) le band che, interrotto a un certo punto il proprio percorso artistico, lo hanno ripreso e riportato vividamente in auge come hanno fatto gli Slowdive. Loro gli anni ’90 li hanno segnati con tre album uno più incisivo dell’altro, con ovviamente “Souvlaki” (1994) sugli scudi, poi due decenni di assordante silenzio e rieccoli nel 2017 con un omonimo quarto disco che li ha rimessi incredibilmente bene in carreggiata, complice anche una certa diffusa ripresa delle sonorità shoegaze (giusto per generalizzare, visto che c’è tanto altro dietro la loro musica) da parte di una miriade di nuove leve adepte dei fissascarpe. Anche dal vivo la formazione inglese si è ri-dimostrata fin da subito in grande spolvero, ma quel loro passaggio all’Alcatraz di Milano nel 2018 aveva lasciato un po’ l’amaro in bocca: non tanto per la loro esibizione, anzi, quanto piuttosto per la deludente presenza di pubblico, con la sala milanese organizzata a capacità ridotta e anche in quel caso non piena come avrebbe meritato l’occasione.
I tempi sono cambiati ancora, gli Slowdive sono usciti lo scorso anno con un altro meraviglioso lavoro in studio, “Everything Is Alive”, che deve aver smosso qualcosa in ancora un’altra fascia di pubblico più giovane visto che, di ritorno ancora una volta all’Alcatraz (e con alle porte un’ulteriore data sold out all’Estragon di Bologna), la situazione che si è presentata si è rivelata ben diversa: sala intera piena come un uovo in ogni angolo e un’attesa palpabile che ha reso fin da subito la serata un evento imperdibile, ben prima che la chitarra di Neil Halstead proferisse le sue prime note.
L’abilità degli Slowdive nell’allestire le setlist, abilità che li accompagna da sempre, rasenta adesso la perfezione, con un continuo gioco di saliscendi atmosferici e di alternanza tra vecchia e nuova produzione che testimonia ancora una volta, ammesso che qualcuno sentisse la necessità di una conferma, il livello iconico raggiunto dai cinque. Ed è così che tocca a shanty aprire il concerto così come l’ultimo album, e poi giù per uno scosceso promontorio sonoro in cui strabordante dolcezza e impetuose asperità chitarristiche s’incastrano fra loro in un tutt’uno che finisce per devastare emotivamente chi sta sotto al palco. Cath The Breeze col suo strato di feedback targato 1991, Souvlaki Space Station che manda in orbita un Alcatraz in cui tutti camminavano già pericolosamente a diversi metri da terra, Slomo eterea ed impalpabile ed Alison che fluttua con una platea in estasi, questi gli highlight del concerto. E poi kisses, il singolo dannatamente catchy che ha senza dubbio contribuito, e pure tanto, a questa nuova e più recente dimensione degli Slowdive (per la cronaca, interrotto da Rachel Goswell per un malore in sala e poi rifatto daccapo).
Al rientro per l’encore di rito c’è spazio per Sugar For The Pill e le sue pillole ondeggianti alle spalle della band, Dagger che ricaccia nuovamente indietro a “Souvlaki” e infine una splendida cover della Golden Hair di Syd Barrett, un altro che in quanto a visioni e suggestioni sapeva a dir poco il fatto suo. Le condizioni di gran parte del pubblico, alla fine, sono quelle di chi sta riuscendo a fatica a riprendersi dall’impatto della musica degli Slowdive, dalle voci complementari e bellissime di Halstead e Goswell, da quelle parole che trasudano malinconia e desiderio e speranza in uguale e penetrante misura. Una band che, probabilmente, non è mai stata così in forma e consapevole di se stessa come in questo preciso momento della propria storia.