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Songs With Other Strangers – 24/10/2010 – Roma – Teatro Palladium

Il nome che li mette assieme è azzeccatissimo: Songs With Other Strangers. Una specie di “canzoni fatte con altri stranieri”, con gente “diversa”, “aliena”, “strana”. Insomma canzoni da parte di chi non fa la solita musica, di chi ha costruito una carriera alla ricerca del differente, dell’ispirato. Questo vollero Cesare Basile e Manuel Agnelli quando misero su il progetto qualche anno fa, volevano cioè un “perfect circle”, un supergruppo, con cui mettersi a suonare a prescindere da ogni logica commerciale, di mercato, tour e dischi. Solo piacere di cuore, una festa tra amici: chi porta le proprie cose, chi si diverte a suonare le cose dell’altro, nessun ruolo prestabilito per un valzer continuo di posizioni. La versione 2010 degli “Strangers” è quella più ambiziosa di sempre perché il collettivo formato da Basile, Agnelli, Marta Collica (Sepiatone), Hugo Race (Bad Seeds, Sepiatone e True Spirit), Steve Wynn, Rodrigo D’Erasmo (Afterhours), Giorgia Poli (fondò gli Scisma), Stef Kamil Carlens (dEUS) e, dulcis in fundo, il produttore e autore di PJ Harvey John Parish, è da sogno.

Ed è questo squadrone che arriva al Teatro Palladium. Di fronte il palco trabocca di strumenti, il pavimento sembra un giardino sovrastato da fronde metalliche di microfoni, chitarre, fili, pianoforti, corde, spine con gli Strangers a danzare là in mezzo. Ci sta Carlens allacciato in un completo orientale con una chitarrina tutta tappezzata di adesivi, ci sta Giorgia Poli con una gonna gonfia quasi da dervisci rotanti, ci sta Rodrigo D’Erasmo con una giacca a frack. Agnelli ha una coda tibetana, Steve Wynn è invece molto tradizionale, gli altri sfoggiano il solito look da desert session (gli stivali a punta di Hugo Race, il cinturone della Collica). Se c’è un aspetto che trascina immediatamente dentro a questo giardino di suoni, è come gli Strangers vadano alla ricerca della fibra del rock. Una fibra bellissima, chiarissima, nascosta sotto centimetri di corteccia elettrica. Esattamente come succede per i pezzi che Hugo Race porta in regalo al gruppo: bui, scontrosi, tenebra, ma che lavorati senza fretta dal supergruppo, arrivano a un’apertura universale. E ognuno suona due e più strumenti come fosse una grande session di prova: Basile alla batteria e alla chitarra, Agnelli tra voce, piano e chitarra, Parish batteria e altro, Collica in diverse salse.

Tra i brani più emozionanti This Is Love di PJ Harvey, Baby Is Coming di Parish, il binomio di Basile (un pezzo che striscia dei vermi della politica, e un secondo in dialetto siciliano che saranno presenti presumibilmente nel prossimo cd). In setlist anche due pezzi di Agnelli: PelleBallad For My Little Hyena e, poi, una Everybody Knows di Leonard Cohen cantata coralmente da tutti e nove Strangers. Il finale di Black Eyed Dog (da Nick Drake) è il definitivo cemento. I musicisti si stringono attorno al cantato di Cesare Basile e partono in un viaggio strumentale psich strappa applausi. Tutti a soffrire in mezzo, tutti a torturare il proprio strumento, tutti lì dove il giardino s’è fatto trincea elettrica. Una densità che avrebbe reso felice come un bambino lo stesso Drake, una performance che è la firma di ognuno di loro troppo poco considerati dalla critica internazionale. Ed è forse per questo che si fanno chiamare Strangers, non per le diverse nazionalità in campo, è ovvio, ma per come prendano la musica e la facciano suonare “diversamente”. Sembra banale, ma non lo è.


(“This Is Love” live @ Teatro Palladium, Roma)

A cura di Riccardo Marra

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