Mentre attendo che arrivi il mio fottuto chickenburger, ma solo dopo aver notato che in questo stand vendono un wurstellazzo di 37 cm che si chiama peitschwurst e da cui mi terrò debitamente alla larga, i Refused si assestano ai loro posti di combattimento. Sbrigati omino del chickenburger, penso, dammi sto cazzo di panino che ho i Refused lì che scalpitano e mica m’aspettano. L’omino ci mette un po’ a capire che non ho intenzione di fissargli la faccia da brav’omino-dei-panini che si ritrova per tutta la serata. Mi molla sto coso di pane finto con una cotoletta di pollo asfaltata in mezzo, una fogliolina di lattuga dipinta a mano e l’essenza di una fettina di pomodoro che, cristosanto, ci vuole coraggio a spacciarlo a 5 euro. Be’, di contro ci vuole coglionaggine da parte mia per farmeli estorcere. Vabbè, chissenefrega, tanto ho la birra che aiuta a dimenticare la fetecchia sintetica che sto propinando al mio oltraggiato organismo.
Sono le 19.30 quando i Refused stanno per attaccare. La maratona soundgardeniana è partita nel cuore del pomeriggio con Triggerfinger e The Gaslight Anthem, sulle cui performance non riesco a reperire alcune notizie dopo aver tampinato un paio di giovinastri alla fila per il bagno chimico. Pazienza, resteranno un mistero per l’intera umanità. Panino finto e birra alla mano, mi ritrovo a una trentina di metri dal palco, che è gigantesco e i Refused partono con la prima schitarrata, che nella fattispecie è Worms Of The Sense, Faculties Of The Skull.
Dennis Lyxzen, biondocrinito singer della cricca, è un dannato pazzo. Teatrale a metà tra Michael Jackson e un mimo, lancia il microfono a destra e manca riacciuffandolo con una precisione degna di un giocoliere. La band è tornata insieme dopo uno iato di ben 14 anni, ma la carrozzeria non è affatto impolverata. Hanno botta, i suoni sono ottimi, Jon Brannstrom, il chitarrista, amministra i riff con estrema precisione; David Sandstrom alla batteria (della cui gran cassa campeggia la scritta “Free Pussy Riot!!!”) trascina la sezione ritmica con colpi precisi e l’impatto che si confà ai brani.
Il set snocciola i pezzi forti del capolavoro “The Shape Of Punk To Come”, da Liberation Frequency alla sempre grandissima Summerholidays vs Punkroutine, da Refused Are Fucking Dead a The Deadly Rythm. Spazio per un paio di estratti da “Songs To Fan The Flame Of Discontent”, secondo album del 1996: intercetto Rather Be Dead e (vado a memoria) Coup D’Etàt. Lyxzen rispolvera l’indole riottosa dei Refused, nati dalla filosofia anarchica, e non può mancare così l’incitamento a rialzare la testa, vista la plumbea crisi economica che affligge Italia, Grecia e Spagna in primis. Rimango colpito dalla verve di questi 5 svedesi per niente appagati dall’essere un tassello fondamentale per lo sviluppo del post-hardcore. Performance di cuore e stomaco eseguita con maestria su un palco davvero troppo grande per una band del genere. Onore ai Refused, who are not fucking dead. Ovviamente, c’è tempo per l’extra che è l’inno New Noise reclamato a gran voce da qualcuno tra il pubblico e qui salto anch’io come un teenager. L’applausometro schizza in alto.
Un’ora spaccata e i Refused si congedano. Mi giro intorno e osservo i presenti, il cui numero cresce col passare dei minuti. È in atto il consueto e silente Contest della T-Shirt da Concerto. Tre le categorie in gara:
a) metallaro truzzo putrido: annoto un paio di power metallari che non trasgrediscono il codice estetico (un Blind Guardian e un inevitabile Manowar);
b) l’alternativo-sono-io-e-non-il-mio-papà: qui c’è una bella vagonata di post-rockers, tooliani sparsi, un Quicksilver Messenger Service e un altro grappolo di nomi, Squarepusher compreso
c) il tema è grunge e grunge mi vesto: fioccano gli Alice In Chains e i Pearl Jam, c’è un Nirvana e persino un Mother Love Bone, pezzo pregiato.
Insomma, desumendo i gusti dei presenti dalle loro maglie, il pubblico è parecchio trasversale, nonostante una filigrana invisibile li leghi. Quelli che se la passano peggio, oltre ai power metallozzi, sono una quasi-cinquantenne-vestita-da-ragazzina con la maglia del Chris Cornell di “Scream”, quello dell’alto tradimento al Sacro Dio del Rock. C’è pure un Simple Plan e vergognati pure, caro. Tanta stima invece al barbutissimo con la t-shirt dei temibili Kvertelaak. Ah, io non partecipo, indosso la mia nuova t-shirt comprata due giorni fa in un negozietto di usato.
Fashion rock a parte, a zonzo scorgo i visi speranzosi di chi, 20 anni fa, passava pomeriggi interi a farsi le canne e a sognare la leggendaria Seattle. Gli orfani del grunge appesantiti da litri di birra, stempiature e Levi’s 501 che li fanno grassi e tozzi, barbe canute e tette cadute, vagabondi musicali racchiusi nella parentesi dei 30-40 anni che, dopo quei suoni che riempivano le giornate e l’esistenza, con estrema difficoltà si sono affezionati ad altro con un così viscerale rapporto. Ecco, vedere i Soundgarden non è una faccenda di arte. È una pura questione sentimentale. Solo che il mondo è cambiato. Cornell e soci erano in auge quando le macchine fotografiche andavano a rullino e dovevi fare attenzione a non mangiartelo con delle foto fatte a cazzo. Ora le foto fatte a cazzo sono all’ordine del giorno e gli autoscatti finiscono dritti su Facebook, come due signor(in)e accanto a me, ridacchiando, testimoniano.
Che i Soundgarden siano delle prime donne saziate dal successo me lo dimostra il tizio che sta passando l’aspirapolvere sul palco. L’aspirapolvere sul palco! Dio santo, questo è roccherrolle, siamo qui per sporcarci e per ruttare e bestemmiare e i Soundgarden si fanno pulire il palco dalle briciole. Fichette, davvero.
Comunque sia, cambio palco non tanto lungo, alle ore 21.30 in puntissimo, eccoli.
Lo ammetto: quando li ho visti sbucare mi si è stretto un piccolo nodo in gola. Mi sono sentito catapultato nella mia cameretta, in quel lontano 1995 quando inserivo ogni giorno la cassetta di “Louder Than Love” (alternata a “Bleach” dei Nirvana), il primo bivio della mia formazione di ascoltatore e musicista (il secondo sarà l’acquisto a scatola chiusa di “Aenima” dei Tool nel 1998). Sto quasi per mettermi a piangere, non mi è mai capitato aun concerto. Chris Cornell, Kim Thayil, Ben Sheperd e Matt Cameron, nomi che tutti insieme ho solo visto stampati nei booklet dei loro cd, facce che ho soltanto viste impresse nelle riviste che leggevo. Personaggi così distanti che quasi pare non siano reali.
L’angolino-amarcord però termina quando la truppa soundgardeniana attacca a suonare. Lo sapevo che facevano schifo dal vivo e i quattro di Seattle non si applicano per smentirmi.
Si parte con Searching With My Good Eye Closed e già con Spoonman che la segue a ruota qualche sbarbatello nei miei paraggi attacca col pogo. A proposito dei miei paraggi. Dietro di me si è posizionata una coppia, un lui e una lei. Premesso: siamo tutti qui per divertirci e cantare le canzoni che ci hanno svezzato, ma voi due rompete i coglioni. Lei, al termine di ogni canzone, sbraita dei Bravi! neanche fossimo alla Giornata della Creatività Studentesca. Ci saranno 15.000 persone e l’unica minchiona che sbraita Bravi! a ruota libera sei tu: poniti qualche domanda. La faccenda è aggravata dai 3000 decibel che emette a ogni urlo, mi si conficca nel timpano, è davvero insopportabile. Poi non sa le parole di molte canzoni ma canta ugualmente e sovrasta la voce di Cornell, parti di molti brani me le sono perse. Se dovevo sentire un’oca che starnazza non pagavo 70 euro, vorrei dirle, ma non posso, non ne ho il diritto. Quando poi, al termine di Blow Up The Outside World tira fuori la doppietta: Sei bono, sei figo, le vorrei infilare due dita in bocca e staccarle uno per uno i denti e dirle che Justin Bieber suona a Milano tra poco, ha sbagliato concerto. Fastidiosissima. Il suo amichetto o fidanzato che sia, ok, avrà anche studiato canto e vuol farlo notare al pianeta, solo che i suoi gorgheggi, giusto alle mie spalle, sono conditi da sputacchi sui miei capelli. Cristo, mi piacerebbe annientarlo con un peto rotante, devastandogli così l’apparato respiratorio con danni irreversibili, preferibilmente a trachea e corde vocali. Vorrei ma non posso, stavolta per assenza di aria in me, ma mi sarebbe piaciuto parecchio: scovalo tu poi, tra tutta questa gente, il reale mittente di questa missiva mefitica. Vabbè, ai concerti il vicinato è quello che è, ma mi pare che io abbia una predilezione nell’attrarre casi clinici.
Viziata dalla presenza dei due qui dietro, la cronaca che state leggendo sarà il più obiettiva possibile, promesso. E per essere obiettiva, non posso non sottolineare alcuni aspetti che trovo inaccettabili:
1) una sporcizia di suono imbarazzante: chitarre impastate e dal volume infimo. Il basso di Sheperd e la cassa della batteria predominano sull’insieme;
2) un Kim Thayil di un’imprecisione spaventosa negli assoli, sgarra parecchie pentatoniche;
3) la postura sul palco è quella di una band appagata, che non ha niente da dare e che è qui solo per svolgere il compito: sembra non ci sia passione, o se c’è, è molto contenuta;
4) infine, Cornell. Non è una novità, è molto sottotono, si mantiene semi-sufficientemente a galla con una vera e propria colata di riverbero che gli allunga le parti alte. Inoltre, è evidente che non si trovi più a suo agio nel mondo del rock, anche le movenze sono a volte impacciate.
Tutti questi elementi vanno tenuti in conto quando il set entra nel vivo, un autentico greatest hits e c’era da aspettarselo. Sacrosanto. Vengono quindi eseguite Gun, che è comunque un brano di una cattiveria inaudita e la monumentale Hunted Down, entrambe distanti anni luce dal nuovo singolo Live To Rise, accolto con freddezza da un pubblico troppo legato ai ricordi (e che rimane pressoché indifferente all’annuncio di Cornell sull’uscita del nuovo album a ottobre).
Seguono poi tutti i classici del repertorio soundgardeniano, da Loud Love e Ugly Truth alle inevitabili Fell On Black Days e The Day I Tried To Live, da una spenta Blow Up The Outside World a un altrettanto incolore Black Hole Sun. La piattezza di suono priva di dinamiche le canzoni ed episodi come Superunknown, Burden In My Hand e Outshined non hanno la botta che ci si aspetterebbe nel ritornello. Male.
Terminano con 4th Of July e il tenore alle mie spalle, per fortuna, non conosce le parole, quindi mi consente di ascoltarla, seppur cantata da un Cornell spompato e vestito con t-shirt e pantaloni bianchi che lo fanno somigliare a Jesus Christ Superstar.
Finti saluti, vanno nel backstage e poi i Soundgarden tornano dopo pochi istanti per gli extra. Io nel frattempo trovo uno spazio tra la folla grazie a due ragazze che si dileguano e riesco a scrollarmi la coppia di disturbatori alle mie spalle, avvicinandomi un po’ al palco. Richiesta a gran voce, Cornell e soci attaccano con una Jesus Christ Pose che è quella che è, con quelle cazzo di chitarre che non provocano alcuna onda d’urto. Cala il sipario prima con una Slaves & Bulldozers fiacca, poi con Cornell e Thayil che rimangono da soli sul palco a generare uno sciame di drones e feedback con le chitarre, proprio come facevano agli esordi, ma è tutto così studiato che non si esalta quasi nessuno.
Mentre il lungo serpentone di appassionati defluisce verso automobili e metropolitana, intercetto pareri delusi da chi si aspettava un altro tipo di performance, più accorata e massiccia e che rendesse onore a un passato che è patrimonio condiviso per tutti i presenti. Inutile dire che c’era da aspettarselo, che i Soundgarden non hanno mai brillato di verve nei loro live, anche quando erano all’apice del successo. E mi convinco ancora una volta che reunion come queste siano un triste e quasi disperato tentativo di riaccendere un fuoco che ormai non può più ardere, se non nei ricordi.
SETLIST: Searching With My Good Eye Closed – Spoonman – Gun – Hunted Down – Live to Rise – Loud Love – Ugly Truth – Fell on Black Days – Blow Up the Outside World – My Wave – The Day I Tried To Live – Outshined – Rusty Cage – Burden In My Hand – Superunknown – Black Hole Sun – 4th Of July —encore— Jesus Christ Pose – Slaves & Bulldozers
A cura di Marco Giarratana