Second album syndrome, la chiamano gli inglesi. Uno di quei miti utili al giornalismo musicale contemporaneo, nel tentativo di legiferare in materia di casistica. Un modo per assegnare un nome alle attese, a volte purtroppo non ricompensate, che qualsiasi ascoltatore può nutrire dopo un esordio particolarmente gradito. Una definizione – insomma – che sigilla entro il proprio recinto la sacrosanta difficoltà di ribadirsi, e che spesso, nella storia del rock, ha fatto piazza pulita di gruppini e gruppetti, o incastonato pietre miliari radiosamente splendenti seppur tragicamente solitarie.
Della stessa sindrome, più o meno, poteva soffrire anche Zanne Festival, ambiziosissima tre-giorni catanese con appena un’edizione alle spalle. Se il primo ciak era stato buono, dal secondo, inutile negarlo, ci si aspettava molto. «Pas mal», avranno ribadito tra sé e sé gli organizzatori, confermando il tiro e pensando ancora in grande, sistemando qua e là alcune pecche (veniali, per un primissimo appello) e lavorando – bene – per dare alla rassegna un’identità sempre più definita e carica di appeal. Molte le novità rispetto all’anno passato, a partire dalla vincente 3-consecutive-days formula che ha fatto del capoluogo etneo un centro d’aggregazione r’n’r, fino ad un significativo ampliamento di una line up eterogenea ma ponderata.
Sabato 19 vede la presenza di ben quattro band pronte ad alternarsi sul palco. Nel tentativo di rispettare per bene la tabella di marcia, i Dirty Beaches avviano la loro breve e nondimeno ottima esibizione intorno alle 20.30, davanti ad un numero non propriamente cospicuo di astanti. Conseguenza, quest’ultima, d’una addizione incontrollabile di fattori, legati alla proverbiale mancanza di puntualità sicula da un lato, e all’assenza di una ben definita time table dall’altro. Il duo taiwanese made in Montreal restituisce dal vivo gli stessi, allucinati singulti discografici da “Taxi Driver” sotto un cocktail di metanfetamine e codeina. Un notturno dopo l’altro, attraversando gli onirismi füssliani di Night Walk o I Dream In Neon, si arriva al termine della notte fin troppo presto, salutando questa moderna versione di Elvis fattosi appena un giro dentro una copia in bassa risoluzione di “Blade Runner”. Presi in mezzo a due grandi show, i Dark Horses fanno sfoggio delle loro più che oneste ma perfettibili doti, attingendo a piene mani dal garage psichedelico decelerato di “Black Music”, con il singolo Radio posto a punta di diamante. Una comparsata di Robert Levon Been dei Black Rebel Motorcycle Club contribuisce a scaldare un’atmosfera finora tiepidina, ma pronta ad animarsi col mestiere dei Clinic. Old but gold, il quartetto di Liverpool tira fuori dal cappello a cilindro un’accurata selezione forgiata su una carriera lunga sette LP in dodici anni. Nonostante la varietà della tavolozza, il pennello di Adrian Blackburn e soci scala il proprio personalissimo Everest grazie alle vecchie scosse di T.K., The Return Of Evil Bill e Walking With Thee, per chiudere in bellezza con una 2/4 ad alto voltaggio. Headliner della soirée ed incontestabili idoli della folla, i BRMC calcano invece il palco per ultimi, mettendo in luce virtù e debolezze d’una carriera intera. Privi d’un repertorio lucidamente memorabile che vive ancora ampiamente di rendita (vedi entusiasmo collettivo per Red Eyes And Tears, ma soprattutto per Whatever Happened To My Rock N’ Roll e Spread Your Love), i Nostri offrono uno spettacolo solido e certamente self-confident, benché resti dalle parti del mistero l’hype che tutt’oggi si ostina a circondarli.
Condita da un pomeridiano fuori-programma che porta il vessillo autoctono di Brigantony, la data conclusiva muove in realtà i suoi primi passi sull’intro degli augustani Lead To Gold, vincitori del concorso “Nuove Zanne”. Dal loro glitch pop al noisegaze scanzonato degli Skip Skip Ben Ben, il passo non è mai stato così breve. Il trio cresciuto a pane e My Bloody Valentine convince in poco più di mezz’ora un pubblico bufalinamente scettico, che si lascia andare ai ritmi di Walkmen e Sand. Da Taipei con furore e simpatia, ma adesso è il turno dei pezzi da novanta. Bastano letteralmente quattro minuti, quelli dell’apripista Epic, per capire quanto i Calexico abbiano ancora da dire sul palco (e non solo). Reduci dal buon ritorno di “Algiers”, Joey Burns & Co. scelgono Catania per tenere il loro classico seminario dal titolo “How to play on stage”, con buona pace di detrattori e predecessori. Alzi la mano chi è stato capace di resistere alle travolgenti Across The Wire e Minas De Cobre, chi non ha mosso un passo sull’incedere salsero di Inspiración, chi non si è dato alle danze nel vortice tex-mex di Crystal Frontier. La classe non è acqua, ma un bicchiere di rhum che si è costretti a scolare dinanzi allo stile inossidabile col quale los hombres de Tucson, Arizona riarrangiano Joy Division (Love Will Tear Us Apart), Smiths (Bigmouth Strikes Again) e Love (Alone Again Or). La chiosa di Güero Canelo è l’apoteosi d’una fiesta destinata – ahinoi! – ad estinguersi e legittimarsi come protagonista assoluta del festival. Giù il cappello, que viva Calexico!
Tradito forse in certa misura da un’inguaribile ma giustificata nostalgia, Zanne si conferma polo d’attrazione capace di chiamare a sé non soltanto il serbatoio siciliano, ma quell’Italia figlia di un dio minore che difficilmente ha opportunità del genere da Roma in giù. In attesa della già notificata terza edizione, l’impressione è che la rassegna abbia tutta l’intenzione di crescere e migliorarsi costantemente, consapevole di rappresentare ormai un evento di peso da questa parte della penisola. Buona la prima, avevamo detto: è buona anche la seconda. Eliodoro ringrazia, apprezza ed incassa. Ci rivediamo qui tra dodici mesi.