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Big Black

Prendi un frullatore. Mettici dentro sassi acuminati. Accendi. Poi, mentre con un martello distruggi il frullatore, urla tutta la rabbia che hai in corpo. Se nel frattempo ti sei registrato, sei Steve Albini e stai dando vita ai Big Black, gruppo cardine della scena underground americana (e non) degli anni ’80. Con una formazione che vede come membri fissi solo Albini e Roland, personificazione di una drum machine, i Big Black daranno, con una manciata di dischi, un impulso decisivo allo sviluppo di vari generi, dal post hardcore all’industrial passando per il noise rock, il tutto in un compatto groviglio al benzene, dove le chitarre sono fili scoperti e il basso un martello inarrestabile. Albini, occhialuto e pestifero detrattore dell’industria musicale, già gravitante attorno alle esperienze dei Naked Raygun, eredita da essi prima la violenza sonora, poi anche i musicisti (tra cui Santiago Durango e Jeff Pezzati), e proprio grazie a questa prima creatura consegna sé e il proprio sound agli annali della musica underground. La prolifica attività di produttore (per, tra gli altri, Pixies, Sonic Youth, Slint, Nirvana, Zu) e l’incoercibile volontà di rimanere nell’underground non intaccheranno, infatti, nonostante le evoluzioni stilistiche tra Rapeman e Shellac, l’imperativo primigenio che nei Big Black trova la concretizzazione più pura: making a noise like an animal.

 

LUNGS (1982)

È sbagliato identificare una band con il proprio frontman. Ma, al di là del genio indiscusso di Albini, in questo EP i Big Black contano ancora Steve come unico membro (umano, s’intende: c’è anche Roland). E questo si riflette per forza di cose sul risultato complessivo: un disco slegato dall’idea di gruppo musicale, un alienante decorso di drum machine attraversato da ondulazioni elettriche e un cantato/recitato/urlato ai limiti del rap. Sebbene l’autore lo ritenga la cosa peggiore prodotta in vita sua, l’EP è invece una buona occasione per esplorare un lato non ripetuto della sua carriera, un hapax che se qualcosa anticipa dei futuri Big Black (Live In A Hole) per il resto conserva la sorpresa. Per dirla con un anacronismo proporzionale, “Lungs” sta ai Big Black come “Pretty Hate Machine” sta ai Nine Inch Nails.

Brano consigliato: Steelworker – In breve: 3,5/5

 

BULLDOZER (1983)

Passa solo un anno, si tratta ancora di un EP, ma cambia tutto: quanto in “Lungs” era inserito in potenza, in “Bulldozer” si sprigiona in atto. La poetica albiniana rimane la stessa, musica underground marcia e anti-tutto, ma la sua estetica ne esce rinvigorita, ora è circondato da altri musicisti: la doppia chitarra (l’altra è di Durango) permette una maggiore esplorazione sonora, fino ad arrivare al contrappunto (Texas), mentre la presenza di un batterista (Pat Byrne, unico caso nella discografia del gruppo) accanto a Roland è garanzia di un ordito ritmico più intricato (I’m A Mess). Steve urla dietro il microfono, le chitarre fischiano, il basso è un colpo al cuore: la formula è stata trovata, il miglior EP dei Big Black.

Brano consigliato: Cables – In breve: 4,5/5

 

RACER-X (1984)

Il terzo EP è tutt’al più una bella conferma di quanto già acquisito in “Bulldozer” e un ulteriore tassello per preparare il terreno al primo album vero e proprio. Ad eccezione dell’assenza del batterista, “Racer-X” rigioca le carte del predecessore: attraversamento dell’hardcore punk più angoscioso per un altrettanto angoscioso post hardcore, defibrillatore noise. Rispetto all’EP dell’83 risente di un maggiore staticismo, che rende i brani addirittura più “melodici” (per quanto possa essere melodica la musica frusta e logora che passa per le mani di Albini), come può testimoniare, ad esempio, la linea di basso in Deep Six. Questo, tuttavia, non impedisce al disco di raggiungere in certi momenti picchi degni dei migliori Big Black, come nel caso di The Ugly American, che al codice bigblackiano ormai collaudato aggiunge un singhiozzante e spasmodico sassofono.

Brano consigliato: The Ugly American – In breve: 3,5/5

 

ATOMIZER (1986)

Nell’86 i Big Black decidono di fare il grande passo e lasciare la dimensione ridotta dell’EP. Il risultato è fenomenale: “Atomizer” è un capolavoro assoluto. Se aveva del travolgente il tiro mozzafiato tenuto dall’inizio alla fine su un EP come “Bulldozer”, lo stesso lavoro ha dell’incredibile su un disco più esteso. “Atomizer” è un claustrofobico, spersonalizzante agglomerato di chitarre impazzite che sono come aghi o lame che trafiggono dalla testa ai piedi. E dietro il suono sublimato (dal solido all’aeriforme) delle sei corde, arriva come un ariete un impasto di basso e drum machine, che fa terra bruciata su quanto prima tagliuzzato dalle chitarre. Il noise qui non è la complementarità tra caos ed eleganza alla Sonic Youth, ma una materia nera compatta come il ferro e veloce come un proiettile, i rigurgiti melodici sparsi qua e là (Bad Houses, Fists Of Love) sono abortiti in vece di un caos nichilista che non scende a compromessi, ma cela comunque alle spalle una cura maniacale e filosofica del suono. Jordan, Minnesota, Passing Complexion, Big Money sono pezzi di distruttiva immediatezza. Forse in assoluto il miglior album firmato Albini.

Brano consigliato: Kerosene – In breve: 5/5

 

SOUND OF IMPACT (1987)

Un altro grande punto di forza per Albini e soci (e non solo nei Big Black ma anche in Rapeman e Shellac) è la dimensione live: la cura con cui gli album vengono definiti in studio non riesce ad oscurare l’impatto genuino della resa dal vivo. “Sound Of Impact”, che raccoglie tracce provenienti soprattutto da “Atomizer” ma anche dai dischi precedenti, esemplifica questa capacità: l’estetica hardcore metabolizzata e oltrepassata dal gruppo americano, sposa qui la sua etica. Suonare in piccoli locali, nel sudore, senza fasti, eliminando ogni filtro di distacco tra band e pubblico così come tra palco e sala di registrazione. La sede live, prova del nove per chi vive la musica fin dentro le ossa: i Big Black sono tra questi.

Brano consigliato: Cables – In breve: 4/5

 

HEADACHE (1987)

Il quarto ed ultimo EP dei Big Black non raggiunge, e non può farlo, il livello di “Atomizer” e i Big Black sono i primi a saperlo: “Warning! Not as good as Atomizer, so don’t cry your hopes up, cheese!”, c’è scritto sulla copertina. Un disco più provocatorio che altro: la scritta ironica, la copertina con un vero volto spaccato a metà ritirata quasi subito dal mercato, quattro tracce che si spartiscono i soli undici minuti complessivi. Album velocissimo (il loro più breve) che rimarca lo schema già collaudato dal gruppo (tappeto elettronico di drum machine e basso e chitarre che saturano gli spazi vuoti), concedendo però una maggiore separazione tra le parti che non raggiunge l’amalgama di “Atomizer” e ricorda di più, invece, la maggiore staticità di “Racer-X”.

Brano consigliato: Ready Men – In breve: 4/5

 

SONGS ABOUT FUCKING (1987)

“Headache” ci aveva lasciato intuire che non c’era niente di meglio di “Atomizer”, e aveva ragione. Ma “Songs About Fucking”, non solo è un ottimo erede, riesce anche a costruirsi una propria ed autonoma dignità. Un altro disco claustrofobico ed incendiario, ma stavolta una più puntuale essenzialità delle tracce ci guadagna in minimalismo, e col senno di poi potrebbe anche riconoscersi come il germe lontano di quello che sarà il “trio rock minimalista” albiniano, gli Shellac. Ce lo dicono chiaramente i brani più fulminanti del disco: The Power Of Independent Trucking, Ergot, Fish Fry sono travi scarne e disossate, e per questo incisive, Bombastic Intro sfodera le possibilità ossessive di Roland. La cover The Model dei Kraftwerk, poi, rivela un ponte verso la Germania che giustifica la maggiore vena industriale dell’opera. Il post hardcore/noise raggiunge qui una forma interiorizzata di distruzione, che perde in quantità ma acquista in penetrazione.

Brano consigliato: The Power Of Independent Trucking – In breve: 5/5

 

PIGPILE (1992)

Gli anni dall’87 al ’92 sono decisivi per l’evoluzione di Albini. Sono finiti i Big Black, sono iniziati e finiti i Rapeman, gli Shellac stanno per essere partoriti, Albini ha prodotto gli Slint. Pigpile, perciò, nonostante raccolga registrazioni live risalenti all’87, suona come un album ormai lontano da quell’epoca. Non per questo, tuttavia, è sminuita l’efficacia live del gruppo, che trova qui, forse più che in “Sound Of Impact”, il proprio scenario. Raccogliendo da pressoché tutta la carriera del gruppo, “Pigpile” si rivela un live più esaustivo rispetto al precedente; trovano spazio anche brani provenienti da quel “Lungs” tanto atipico nella loro discografia, qui rivisitate in un’ottica più atomizeriana. Con una tracklist mozzafiato, “Pigpile” è l’epicedio onorifico di una band che ha segnato la storia.

Brano consigliato: Jordan, Minnesota – In breve: 4/5

Antonio Francesco Perozzi è meravigliato dall'esistenza. Perciò, cerca di darsi da fare in ogni campo che tratti l'essere umano come un problema da scandagliare. Recita un po' di rock nei suoi Nefas, scrive romanzi e poesie, ma trova più domande che risposte.

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