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Alan Sparhawk – White Roses, My God

Possiamo solo immaginare il baratro in cui è finito, il vuoto assoluto in cui deve essersi ritrovato Alan quando nel 2022 Mimi ha perso la sua battaglia per la vita contro un cancro alle ovaie. Perché Alan Sparhawk e Mimi Parker erano prima di tutto marito e moglie, per noi soprattutto anima e corpo dei Low, una delle esperienze sonore più significative dell’indipendente americano. In un colpo solo Alan ha perso la compagna di una vita, la madre dei suoi figli, la sua migliore amica e anche l’insostituibile socia nell’azienda di famiglia. Un’azienda che, ovviamente, non avrebbe mai potuto continuare a tessere trame sonore senza Mimi al fianco di Alan. E così la ripartenza artistica di Sparhawk passa da un lavoro solista spiazzante, nel bene e nel male, dedicato a partire dal titolo proprio a Mimi (le rose bianche erano i suoi fiori preferiti, lei che era il suo Dio).

L’impressione è che Alan con White Roses, My God abbia provato in tutti i modi a cancellarsi, ad azzerare ciò che è stato, togliendo a se stesso e di riflesso anche a noi ogni possibile punto di riferimento che potesse avvicinarci all’idea di lui e della sua musica per come avevamo imparato a conoscerla. E gli va dato atto di esserci riuscito in pieno, visto che non riconosceremmo un grammo della sua essenza in nessuna delle tracce che compongono il disco, se non fosse per il suo nome stampato sulla copertina. Undici brani per una mezz’ora abbondante di grovigli elettronici, con la sua voce effettata all’inverosimile fino a diventare completamente fredda, asettica, robotica e ovviamente irriconoscibile. Non è Alan questo, non vuole essere Alan.

La trance annichilente del singolo Can U Hear basterebbe da sola a far comprendere ciò di cui stiamo parlando, non c’è calore umano in questo Alan Sparhawk, c’è una sensibile chiusura nei confronti del mondo circostante, respinto con ferocia a colpi di beat martellanti, effetti disturbanti e strati di suoni distorti sovrapposti fino a confondersi. Già negli ultimi capitoli firmati a nome Low s’era visto un certo incremento dell’utilizzo dell’elettronica, ma quello che Alan fa in “White Roses, My God” va dannatamente oltre, lambisce l’alienazione radioheadiana nella Get Still che apre il disco, si fa ossessione nella ripetitività di I Made This Beat, vaga dalle parti di Bristol − ma senza mai entrare davvero in città − in Black Water, non lasciando praticamente mai uno spiraglio da cui far trapelare anche un solo flebile raggio di luce.

È complicato valutare “White Roses, My God”, perché è complicato comprendere ciò che passa per la testa e nel cuore di un uomo alle prese con la perdita, perché il disco si evolve in delle direzioni che tantissimi altri artisti hanno affrontato e affrontano in maniera più completa e a fuoco, perché forse da Alan ci saremmo aspettati altro (ma questo resta un problema esclusivamente nostro, di certo non suo). Dunque occorre semplicemente prendere atto del modo in cui Sparhawk ha voluto affrontare questo suo sofferente ritorno alla musica (“Heaven, it’s a lonely place if you’re alone / I wanna be there with the people that I love”, si sente nell’emblematica, brevissima Heaven), provando ad addentrarsi nel disco in punta di piedi per apprezzarne quantomeno intenzioni e background.

2024 | Sub Pop

IN BREVE: 3/5

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