C’è chi si è sorpreso di un album interamente composto da cover, come se Dylan non ne avesse fatti un numero cospicuo, partendo dall’esordio (che ha invero due originali) passando per “Good As I Been To You” fino ad arrivare al recente “Christmas In The Heart”. C’è chi ha esternato sorpresa per la scelta del repertorio, pezzi del Great American Songbook eseguiti in passato da Sinatra, come se nella sua autobiografia “Chronicles Vol. 1” non avesse già espresso la sua stima ed ammirazione per Frankie Blue Eyes, come se non avesse già dimostrato tutto il suo amore per il Great American Songbook (il canone di pezzi considerati standard nella musica pop americana, un eccelso catalogo dei migliori autori della storia della musica pop dagli anni ‘20 ai ‘50) con numerose cover dal vivo e persino omaggiando il genere con una cover di “Return To Me” di Dean Martin, regalata a quel sontuoso capolavoro che fu i Soprano.
Ancora, c’è chi si è stupito per gli arrangiamenti, che nei pezzi del Great American Songbook generalmente sono ricchi, strabordanti di archi e fiati, mentre in Shadows In The Night sono scarni, essenziali e contano soprattutto sulla steel guitar di Donnie Herron e, naturalmente, sulla voce di Dylan, ennesima “sorpresa” per chi non comprende come il “non sapere cantare” di Dylan è stato un giudizio di critici legati ad un concetto più tradizionale di canto, alla precisione, alla preparazione, allo studio, concetto risibile in un’era post-Presleyana e scardinato da Dylan medesimo cinquant’anni fa. Ma si sa, parlare di musica ormai prescinde dalla musica medesima.
Dylan sceglie arrangiamenti uniformi per l’intero album, adattando il ricco suono di Sinatra ad una band di cinque elementi, con qualche fiato qua e là sempre molto leggero nel mix, con la voce sempre in primissimo piano a lanciarsi in appassionati lamenti amorosi come I’m A Fool To Want You o Fool Moon And Empty Arms. Il repertorio scelto dimostra passione per Sinatra, passione vera di chi lo conosce più per “In The Wee Small Hours” che per “My Way”, e sta alla larga dai pezzi smodatamente famosi (fatta eccezione per Autumn Leaves, uno dei brani nei quali Dylan si lancia con maggiore passione), preferendo gemme come Why Try To Change Me Now di Cy Coleman.
Se è vero che l’uniformità di tempo e di suono può rendere i pezzi simili tra loro e che la voce di Dylan in teoria non sarebbe il miglior strumento utilizzabile in questo senso, non essendo lui un virtuoso né avendo la profondità della voce di Johnny Cash (che aveva anche lui proposto That Lucky Old Sun in “American III”), è altrettanto vero che la passione con cui Dylan interpreta questi pezzi ne fanno un ascolto estremamente piacevole ed intenso. Se c’è una cosa della quale anche noi ci siamo sorpresi è che la voce di Bob non è nelle condizioni drammatico-catarrose che avevamo sentito nell’ottimo “Tempest”, ma – seppur rauca e inevitabilmente segnata dall’età – nella forma migliore sentita da tanti anni a questa parte.
Ma a sorprendersi di Dylan si dimostra di non aver capito l’uomo, prima che l’artista. Dylan, da sempre, fa il benemerito cazzo che gli pare, senza dar retta ad amici, nemici, fan, mogli, fidanzate, amanti e collaboratori. E, visti i risultati, why try to change him now?
(2015, Columbia)
01 I’m A Fool To Want You
02 The Night We Called It A Day
03 Stay With Me
04 Autumn Leaves
05 Why Try To Change Me Now
06 Some Enchanted Evening
07 Full Moon And Empty Arms
08 Where Are You?
09 What’ll I Do
10 That Lucky Old Sun
IN BREVE: 3,5/5