Non è uscito da nemmeno un mese, BRAT. Eppure è già un classico. Più di un classico: un’icona, un’istituzione, un culto. Un meme. Perché la velocità di crociera oggi è chiaramente differente e anche soltanto a volerlo sottolineare uno si sente, giustamente, fuori sync. La copertina l’avrete vista tutti, in giro. Ma Charli xcx e il suo team, of course, non centrano soltanto quella: mettono in piedi il disco dell’anno (finora), un disco del suo tempo, bruciante, frenetico e coriacemente punk nell’attitudine. In Italia purtroppo, uno dei paesi più socialmente retrogradi dell’Occidente civilizzato, c’è da spiegarlo con l’analisi del testo – più che altrove.
Qui dove ancora al gay pride è associato il maschio, tendenzialmente bianco. Dove nessuno sa quali pronomi utilizzare con le persone transgender. Dove c’è un tizio che farebbe anche il suo mestiere, per carità, ma magari smettesse almeno di dire “frociaggine” et similia. Senza nemmeno scomodare la violenza, imperturbabile, del pensiero istituzionale in carica. Se già “Challengers” di Luca Guadagnino, fortunatamente, aveva schiuso le porte del pop alla bisessualità, “BRAT” fa un passo ancora più deciso dandone un punto di vista, finalmente e completamente, femminile. Grazie.
La linea sonora è dichiaratamente quella di tenere il piede sull’acceleratore, unendo il dancefloor più selvaggio alla fragilità del racconto. Di rispettare la nobilissima evoluzione di ciò che un tempo, con disprezzo, veniva definito commerciale e che soprattutto dall’avvento della mai troppo compianta SOPHIE è sbocciato in una nuova, odorosissima giovinezza. L’artista britannica, al secolo Charlotte Emma Aitchinson, prende a piene mani dall’electro anni zero (Justice, Bloody Beetroots, Boys Noyze), dai bpm tech-house, da un campionario di beat e rumori Gen Z. Il risultato è insieme grezzo e iper prodotto, tribale e cerebrale ma sempre e comunque muovendo il culo. Fanno eccezione le sole I might say something stupid e So I, con l’aggiunta last minute di I think about it all the time.
“BRAT”, lo si era già anticipato in avvio, è un disco del suo tempo. Ed è bizzarro, a pensarci, che sia il più chiacchierato del 2024 insieme a “Diamond Jubilee” di Cindy Lee. Un album antisistema, lunghissimo e lisergico, nato nascosto e cresciuto trovato. Sono le due metà dello stesso cielo. Di un’industria che si ripensa convulsivamente. Di artisti, soprattutto, che si specchiano nella durata di un fulmine tentando perlomeno di colpire un tronco, per bruciare un poco. Beh: piaccia o meno ai puristi, questa è l’epoca in cui le popstar possono limpidamente essere più incendiarie di un power trio. E qui ne abbiamo, a conti fatti, un incontestabile esempio.
2024 | Atlantic
IN BREVE: 4,5/5