Con “Lines”, l’album di debutto del 2017, e altri due EP alle spalle l’artista di Oxford è passato dal nulla ai 170 milioni di click su Spotify. Cunningham, però, è tutto fuorché freddo ed è riuscito a mettersi in gioco solo dopo aver compreso appieno come riuscire a fondere il calore della tecnica flamenca alla densità atmosferica creata dalla sua vocalità carezzevole e la passione per un certo genere di ambient, Brian Eno o Aphex Twin, per citarne un paio. Il punto di forza di Cunningham risiede proprio qui: nella fusione tra caldo e freddo, synth e armonie vocali, la sua ormai nota chitarra flamenca con corde in nylon realizzata da Antonio Bernal a Siviglia e unaFender Jazzmaster nuova di zecca, i pedali digitali e gli amplificatori valvolari, il tutto avvolto in un impasto perfettamente fluido e avvolgente.
In Permanent Way, suo secondo album, questo miscuglio e ancora più incisivo di quanto non lo fosse in “Lines”, merito anche di una co-produzione quanto mai iridescente, a opera di Rodaidh McDonald, Sam Scott e Duncan Tootil (Foals). Un viaggio da una parte all’altra della Manica che rincorre la luminosità della title track, le armonie velatamente malinconiche di Skin In, la doppia anima di Monster, l’oscurità sfuggente di Bite.
Eccetto che in Interlude (Tango), la presenza del demone andaluso è latente e si percepisce appena, solo nelle sfumature in verità: da Don’t Go Far a Hundred Times, in cui fa capolino il primo assolo di Cunningham. Nonostante qualche sfumatura ancora acerba, Charlie Cunningham ha superato la prova: non la maledizione del secondo album, bensì la metamorfosi da freddo generatore di ascolti ad artista reale.
(2019, Infectious / BMG)
01 Permanent Way
02 Don’t Go Far
03 Sink In
04 Headlights
05 Different Spaces
06 Monster
07 Interlude (Tango)
08 Bite
09 Hundred Times
10 Maybe He Won’t
11 Force Of Habit
12 Stuck
IN BREVE: 3,5/5