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Chat Pile – God’s Country

Niente di meglio che un disco nero come la pece, nel classico estivo esultare dei colori. Se siete d’accordo con la precedente affermazione, è il caso che ascoltiate l’esordio di questi quattro figuri made in Oklahoma City che sembrano aver sulle spalle ben più che un paio (letteralmente, un paio) di EP in appena tre anni di attività. 

Il loro nome, i Chat Pile, lo prendono dagli accumuli di rifiuti che abitano stabilmente la città ormai fantasma di Picher, ex miniera a cielo aperto non molto lontana da casa. Altra casa – quella discografica – che ci dice qualcosa sui nostri è The Flenser, per i poco esperti l’alcova degli Have A Nice Life. Un brief niente male per giungere alle ovvie influenze di God’s Country: Godflesh, Daughters, Jesus Lizard, Big Black, Helmet, Eyehategod. Andiamo in play?

Bene, si comincia con un drumming à la Todd Trainer per bagnarsi giusto un po’ le labbra, prima dell’immediata esplosione dell’apripista Slaughterhouse. “Hammers and grease!” – evoca immediatamente il cantante Raygun Busch, mentre il basso si liquefà in un percorso melmoso e la chitarra si dissotterra graffiando in modo a dir poco spettrale uno spoken word/howl perfettamente posizionato.

I giri salgono con la misantropia kinskiana di Why e i suoi interrogativi mai repressi da una struttura quasi post punk, per scendere nella comunque scurissima anche se meno brutale Pamela, traccia più seducentemente noise/horrorcore che sludge. Ma è solo una finta.

Wicked Puppet Dance sembra un tir uscito al casello della penna di David Yow e poi entrato nella mente di Steve Austin senza pagare pedaggio, Anywhere è un incubo vagamente grunge a occhi spalancati. Per non parlare del poi. Se non bastano le sassate Tropical Beaches, Inc. e The Mask, arrivano l’anti-favola della buonanotte I Don’t Care If I Burn (per voce un po’ crooner e pochi, sospetti rumori) e i nove ipnotici allucinati minuti di grimace_smoking_weed.jpeg

I Chat Pile, con quello splendido font black metal in copertina su paesaggio spettrale, ci spediscono una cartolina dall’ES francobollata all’ufficio postale dell’inquietudine. Non una prima volta, non una rivoluzione, non un game changer. Ma riceviamo ben lieti e rispondiamo, come farebbe Mercoledì, che a volte il nero può essere il più caldo dei colori.

2022 | The Flenser

IN BREVE: 4/5

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