Spieghiamoci meglio: che oggigiorno pochissime giovani band si distinguano per originalità è un dato di fatto inoppugnabile. Fra di loro, però, le più convincenti sono quelle che, pur mettendo in mostra i rispettivi feticci artistici, riescono comunque a personalizzare un minimo la propria proposta. Con Cheatahs, purtroppo per noi e per loro, ciò non riesce affatto.
Il disco è genuino e si sente, i punti di riferimento sono di quelli di spessore, oseremmo dire di culto, ma ascoltare l’album è un po’ come leggere uno di quei bignami che classificano il rock decade per decade: tanti nomi, tante definizioni, ma neanche l’ombra di un approfondimento che vada oltre il didascalico. Gli anni ’90 vengono qui presi e sviscerati in lungo e in largo: c’è lo shoegaze dei My Bloody Valentine (vedi IV e Fall), c’è il noise stralunato dei Dinosaur Jr. a far baldoria (vedi Geographic o Cut The Grass) e anche l’indie dinoccolato dei Pixies (vedi Leave To Remain). Come si diceva, i modelli che ciascun genitore vorrebbe per il proprio figlio musicista.
Tutto però è tremendamente confusionario: in primis perché davvero non si capisce quale possa essere la strada imboccata dalla band, una mancanza che nuoce gravemente all’uniformità del disco. E in secondo luogo perché più di un passaggio suscita un preoccupante effetto déjà vu. Concludiamo, quindi, porgendovi una domanda: accordereste lo stesso valore a un Picasso originale e ad una seppur fedele imitazione? Immaginiamo di no. Ecco, non crediamo sia necessario aggiungere altro.
(2014, Wichita)
01 I
02 Geographic
03 Northern Exposure
04 Mission Creep
05 Get Tight
06 The Swan
07 IV
08 Leave To Remain
09 Kenworth
10 Fall
11 Cut The Grass
12 Loon Calls
IN BREVE: 2/5