Da anni in quello che si chiama – per mancanza di un termine migliore – “hip hop sperimentale” succedono cose straordinarie. E la cosa straordinaria di queste “cose straordinarie” è quanto diverse tra di loro esse possano essere: dal capolavoro di Solange (no, non “A Seat At The Table” del 2016, bensì il successivo “When I Get Home” del 2019) a JPEGMAFIA, passando per Earl Sweatshirt e Death Grips, senza dimenticare i folli outing di Yeezus himself, sempre più votati alla sperimentazione.
Cities Aviv, al secolo Wilbert Gavin Mays, ha un approccio alla produzione che talvolta ricorda quello usato nel classico del plunderphonics “Since I Left You” con il quale gli Avalanches trovarono il successo nel 2000, ma questo approccio (per capirsi: di usare vagonate di campionamenti anche particolarmente oscuri) viene filtrato attraverso quel particolare genere di produzione hip hop che viene definita “chopped and screwed”, nella quale il campionamento viene rallentato e maltrattato attraverso skip, stop e altre operazioni di deejaying.
A questo punto anche il più paziente dei lettori, se non fortemente appassionato del genere, starà invocando il nome dei nostri antenati leggendo questa sequela apparentemente sconclusionata di termini; lo comprendiamo cari lettori, e veniamo quindi al sodo. Man Plays The Horn, un titolo scelto in tributo all’uomo con la tromba che ha radicalmente rivoluzionato il jazz tante volte da perdere il conto, Miles Davis, è certamente l’album più ambizioso del rapper/produttore di Memphis, un monolite di 1 ora e 26 minuti (con una deluxe edition di mezzora più lunga) che si confronta/scontra con una marea di campionamenti di soul, rhythm and blues, funk e black music in generale.
Ma non è solo un album ambizioso, nel quale troviamo straordinari pezzi come Smoking On A Brighter Day, dodici minuti totalmente privi di rap o tracce vocali di qualunque tipo se non delle vaghe reminiscenze di un sample con una cantante soul che eterea compare a tratti sotto il campionamento principale, che si ripete per tutti i dodici minuti della traccia. No, “ambizioso” a volte significa “malriuscito”, “esagerato”: è il modo per dire ad un artista “grazie amico mio, però la prossima volta anche meno, eh”. No, “ambizioso” qui va inteso nel senso più reale, concreto, nel senso che queste grandiose ambizioni non sono volontà astratta ma sono effettivamente supportate da un materiale sonoro totalmente compiuto (impresa sfiorata con alcuni tra gli ultimi long playing dell’artista del Tennessee, come il recente “The Crashing Sound Of How It Goes” del 2021), influenzato da MF-Doom, dalla psichedelia, dal soul. C’è chi ci sente anche post punk e quello che cazzo volete, perché alla fine il punto non è tanto da dove viene, ma dove arriva: un album totalmente peculiare, stravagantemente astruso, nel quale lo sperimentalismo sonoro risulta in un trip di un’ora e mezza in cui Aviv inquieta e consola, stranisce e abbraccia.
Non è un album che ascolterete alla radio, né negli Stati Uniti né, a maggior ragione, in Italia, e forse può apparire ostico all’ascolto, se approcciato con superficialità; del resto non sarebbe il primo album ostico di Aviv. Ma pezzi come Folklore sono un salvagente in un oceano di trap, ormai in stallo tra decine e decine di album tutti uguali, scritti in maniera uguale, prodotti con gli stessi noiosi, ripetitivi trucchetti. Una piccola luce. Fioca, strana, di decine di colori.
(2022, D.O.T.)
01 Everythang Workin On A Natural Time
02 Black Pleasure
03 The Sun The Moon The Spa
04 Blues Traveler
05 Outside Looking In
06 Jet
07 Maceman
08 Tragedy Theatre
09 Ways Of The World
10 Cinema Club
11 Smoking On A Brighter Day
12 Say It Again
13 Romance
14 Theme From The Source
15 Catalogue
16 Folklore
17 Burning Light In Eyesight
18 To Dream In Color
19 Marina
20 Subterranean Staircase
21 Junebug
22 Ecstasy Reigns
23 Street Land On Me
24 Bolt Thrower
25 Time & Time
26 The Final Spark
IN BREVE: 4,5/5