In quel periodo, svanita l’infatuazione psichedelica, svanita anche l’elegante vena hippy, David Bowie cambia la permanente riccia in una corta zazzera arancione (leggenda vuole che l’idea sia stata copiata ad una sfilata di moda dello stilista nippo-francese Kenzo e la tintura ai capelli sia stata eseguita dalla moglie di Mick Ronson, chitarrista degli Spiders) e assume l’identità della rockstar aliena ed androgina, Ziggy Stardust, per cantarne le gesta in un concept-album importante, indimenticabile ed irripetibile, The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars. Si tratta dell’ascesa e caduta di una creatura effimera e dei suoi sodali (impersonati da Mick Ronson, Trevor Bolder e Mick Woodmansey), interpretata e messe in scena come fosse un dramma radiofonico o uno spettacolo di varietà. Ed, infatti, Bowie allestì uno show teatrale a Londra, con balletti, mimi e scenografie sontuose, prima di partire in tour per gli Stati Uniti d’America, paese in cui la fortuna legata a Ziggy trovò largo seguito, registrando diversi sold-out, che lasciarono fuori dal circuito addirittura Andy Warhol in persona.
Ogni rappresentazione era aperta dalle note introduttive della colonna sonora di “A Clockwork Orange” (tr. it. “Arancia Meccanica”), il controverso film di Stanley Kubrick, ritirato dalle sale per lungo tempo ad opera della censura inglese; anche le fotografie della copertina interna del disco, che ritraggono Bowie e i suoi musicisti in eccentrici costumi, erano in parte ispirate al film, mentre, per quanto riguarda gli scatti che effigiano David nei panni di Ziggy sulla copertina e contro-copertina del vinile, si narra una gustosa storia. Era un’abitudine diffusa presso i divi dei primi anni ’70 lanciare messaggi subliminali attraverso le opere rock: i fans di Bowie si domandarono il significato di alcuni oggetti rappresentati nelle immagini, attribuendo simbologie inesistenti all’insegna “K-West” che appariva sopra la testa del cantante (interpretandolo come “quest”, ossia ricerca) o alla cabina telefonica rossa in cui Bowie è chiuso sul retro di copertina. Ironicamente, nella strada in cui avvenne il servizio fotografico, Heddon Street, gli oggetti sono stati rimossi e venduti all’asta come cimeli della musica rock.
Con ogni ragione, “Ziggy Stardust” è considerato il disco che ha cambiato il rock, traghettandolo dagli anni ’60 ad una nuova epoca, reputato l’album più influente degli anni ’70. Per ammissione posteriore dello stesso Bowie, “Ziggy Stardust” è l’unico lavoro per cui l’artista inglese sia entrato in studio di registrazione“armato di vere e proprie canzoni”. Trevor Bolder, che suonava il basso negli Spiders, dichiarò che il gruppo eseguiva i brani in studio di registrazione sotto la regia inflessibile di David, il quale, con fare suadente e pervicace, riuscì anche a convincerli della necessità di indossare dei costumi di scena, portando tutti a provare abiti sgargianti nel camerino dei Trident Studios di Londra (la stessa camera in cui riposava il figlioletto Zowie con la baby-sitter). Ziggy era frutto di un’unione illegittima germogliata nella mente di Bowie: un miscuglio di figure carismatiche come Jimi Hendrix, Jim Morrison, Lou Reed, Mick Jagger ed il cantante pazzo e “maledetto” Vince Taylor, conosciuto personalmente dal suggestionabile David ed ammirato molto, prima che morisse suicida in Francia.
Per essere un disco composto da un giovane autore, “Ziggy Stardust” sembra davvero incredibile. Five Years dagli iniziali delicati tocchi di batteria sviluppa un crescendo di emozioni annunciando un’imminente fine del mondo, annunciata e attesa perché il mondo stesso non sa dove andare: le uniche cose che si possono salvare sono amore e bellezza. Soul Love, che diventò presto singolo di successo, si apre a suggestioni soul, ma si ravvisano le ossessioni per l’astronomia, l’ansia di conoscere universi paralleli, percepibili, inoltre, in Starman e Moonage Daydream. Non si erano ancora spenti gli echi dello sbarco dell’uomo sulla Luna, evento che tutto il mondo, commosso e trepidante, ebbe modo di osservare in televisione. Non manca una cover, It Ain’t Easy, originariamente di Ron Dennies, qui resa in chiave blues-gospel, che apre la strada a Lady Stardust, sofisticata metafora di un artista androgino e promiscuo che canta le sue “canzoni di oscurità e disgrazia” e che, in origine, doveva essere dedicata a Marc Bolan (il titolo doveva essere “Song For Marc”).
A proposito del nome Stardust, non è un mistero, oggigiorno, che sia stato mutuato da quello dello sfigatissimo cantante Legendary Stardust Cowboy, ovvero il bluesman americano Norman Carl Odom. Bowie spiegò così la promiscuità che il pregiudizio sociale gli rimproverava di trasmettere ai giovani suoi ammiratori: “Suppongo che molti di loro siano confusi come lo sono io” – dichiarò in un’intervista avvenuta dopo uno show – “Io li consolo nella loro confusione. Ho smesso di analizzare la cosa. Catalogare la confusione è corteggiare il suicidio. La mia natura sessuale è irrilevante, sono un attore, interpreto ruoli, frammenti di me stesso. Fuori dal palco sono un robot. Sul palco raggiungo l’emozione. Probabilmente è per questo che preferisco essere Ziggy all’essere David”. Mentre si può riconoscere il tema portante dell’album nel brano Hang On To Yourself, che anticipa un ritmo accelerato proto-punk (al punto che, pochi anni dopo, i Sex Pistols dichiararono che rappresentò l’ispirazione per “God Save The Queen”), Ziggy Stardust è, invece, il brano autobiografico, il manifesto delle intenzioni dell’artista e della sua band. A seguito della serie di sfilate, avvenute per le strade di New York nel 1971, di femministe scese in piazza per i diritti della parità sessuale, la reazione disimpegnata e glamour di Bowie si evidenzia in Suffragette City, descrizione di una breve visita in un bordello spaziale: dal vivo, Bowie e Ronson mimavano un amplesso virtuale, allorché eseguivano la canzone e Ziggy, – inutile dirlo -, interpretava la “suffragetta”.
L’album trova una conclusione logica e malinconica nel suicidio artistico dell’alieno personaggio, descritto in Rock’n’Roll Suicide, una canzone da assaporare come l’ultima sigaretta di un condannato, prima di darsi in pasto al pubblico: il pubblico, infatti, verso il quale il cantante tende idealmente le mani con gesto melodrammatico, prima di abbandonarlo (“Dammi le tue mani, perché sei meraviglioso”), è il vero ed unico amante di Ziggy. La narrazione per parole e musica si esaurisce in se stessa. La “morte” artistica dell’extraterrestre avvenne il 3 luglio 1973, a Londra, in un teatro da 3500 posti; Bowie annunciò addirittura una sorta di necrologio: “Questo show rimarrà come il più lungo nella nostra memoria, non solo perché è la fine del tour, ma perché è l’ultimo show che faremo”. Una dichiarazione del genere gettò i fan nello sconforto e convinse la stampa del ritiro definitivo di Bowie dalle scene, ma il periodo era troppo fervido di idee per rinunciare ad ogni possibile sviluppo. Quello che l’artista aveva in mente non poteva essere rivelato prima del dovuto.
Nota: una versione rimasterizzata su compact disc contiene 5 tracce bonus: John I’m Only Dancing e Velvet Goldmine, l’inedita Sweet Head, più i demo di Ziggy Stardust e Lady Stardust.
(1972, RCA)
01 Five Years
02 Soul Love
03 Moonage Daydream
04 Starman
05 It Ain’t Easy
06 Lady Stardust
07 Star
08 Hang On To Yourself
09 Ziggy Stardust
10 Suffragette City
11 Rock’n’Roll Suicide