Schivo e reticente nella vita privata, Andrews non è più il ragazzino messo sotto contratto dalla Blanco y Negro Records. Ormai di anni ne ha trentasei e probabilmente si sente pronto ad affrontare il ricordo di un’infanzia tutto tranne che romanticamente bohemien, frastagliata dalla distanza fisica, emotiva e stilistica tra lui e il padre, dai continui spostamenti da un continente a un altro e la frustrazione del sentirsi sempre fuori posto. La voglia di distaccarsi da un mondo che non sentiva suo ha sempre portato Andrews a sperimentare una forma fortemente narrativa di songwriting, giocando con una verve interpretativa e creativa estremamente noir e teatrale; non è un caso che i The Veils abbiano stuzzicato l’interesse di Lynch, Burton e Sorrentino.
La svolta artistica di Andrews ha un taglio molto classico, forse complice l’intuizione del padre Barry Andrews (XTC, Leagues Of Gentleman) sull’accordo di pianoforte che apre Love What Can I Do, o quella nostalgia adolescenziale che lo ha fatto andare via da Londra per fare ritorno in Nuova Zelanda, o ancora la scelta di incidere tutto in presa diretta al The Lab Studios di Auckland, con la supervisione di Thom Haely.
One Piece At A Time è un album pop, ma di un pop classico, orchestrale, romantico, malinconico, abbastanza lontano dall’essere catchy, scevro di chitarre, rullanti e vertigini: solo Andrews, voce e piano, una sezione ritmica spazzolata, un basso pronunciato come nella migliore tradizione classic pop dell’America degli anni ‘70. A eccezione di One By The Venom, che enuncia cinquantacinque modi per morire, con un groove in chiave flamenca e un bel colpo di frusta in chiusura, e What Strange Things Lovers Do, un miscuglio synth folk con un cantato che ricorda Tom Waits, ossessione recente di Andrews, le altre tracce hanno una discreta eleganza e un apprezzabile fascino che le avvolge in una nube di tormento da perfetta ballad vintage.
I testi sono molto intimi e criptici da decifrare, ma “One Piece At A Time” sembra offrire più la sensazione di riconciliazione personale con un padre tanto assente quanto difficile da gestire; così, gironzolando tra le interviste all’artista di Kentishtown, si scopre che Al Pacino furono le prime due parole di Finn Andrews da bambino, come probabilmente è sua la piccola voce che si sente dialogare con un papà in apertura della traccia, oltre al fatto che Al Pacino / Rise And Fall non è un riferimento all’attore italoamericano ma racconta l’alternanza di picchi e cadute di Andrew stesso.
E anche se a volte il tema principale di alcuni pezzi appare fin troppo lento e un po’ banale – Stairs To The Roof ma, ancora di più, The Spirit In The Flame e Shot Through The Heart, entrambe pericolosamente somiglianti a un Robbie Williams nella fase meno sfavillante della sua carriera – Andrews riporta tutto a un piano struggente con un tono straziante e teatrale, continuando a fungere da colonna portante di quel confortevole senso di malinconia che lo caratterizza da sempre. Don’t Close Your Eyes, la traccia conclusiva zuccherosa e inconsistente, è forse l’elemento meno forte dell’album, sorretta da atmosfere da love story tra mature turiste angloamericane e toy boy locali, lì in qualche isola dispersa nel Pacifico.
“One Piece At A Time” è un buon lavoro di scrittura creativa e godibile sotto l’aspetto sonoro, carente forse di quel pugno allo stomaco che riesce a farti svegliare con l’idea fissa di riascoltarlo ancora e ancora. Ma d’altronde è questo il bello dei debutti: l’inizio di qualcosa, l’attesa di qualcos’altro.
(2019, Nettwerk)
01 Love, What Can I Do?
02 Stairs To The Roof
03 The Spirit In The Flame
04 One By The Venom
05 A Shot Through The Heart (Then Down In Flames)
06 What Strange Things Lovers Do
07 Al Pacino / Rise And Fall
08 Hollywood Forever
09 One Piece At A Time
10 Don’t Close Your Eyes
IN BREVE: 3/5