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Francesco Bianconi – Forever

Ha ancora senso chiedersi cosa sia davvero “per sempre”? Forse sì. Magari, schivando la rigidità di certe risposte (comprese quelle mistiche) e lasciandosi ammaliare invece dall’essenza primitiva del suo significato: espressione enfatica sottratta all’arroganza del tempo, come la tomba (vuota) di Osiride e la “Letze Symphonie” (incompleta) di Schubert. “Per sempre” non è l’eternità, ma una sua promessa: inquilina inaspettata di poesie sfitte e storie diroccate. Ultima corsa di un refrain che non ha capolinea. Bacio d’inchiostro sulla pelle. Condanna a resistere all’esistere a scadenza. 

Francesco Bianconi licenzia – dopo una serie di affascinanti anticipazioni (Il bene e L’abisso) ed il format social “Storie inventate” – la sua prima avventura sonora lontano dagli amati Baustelle (ai quali, prima o poi, qualcuno dovrà pur dire “grazie” per quanto finora fatto e, soprattutto, rappresentato) e lo fa in grande stile nel bel mezzo di questa strana e terribile epoca, in bilico tra il distanziamento sociale e quello culturale. 

Forever è un disco prezioso. Per ciò che canta innanzitutto: le parole (che sono sempre importanti). Brani come Andante (con l’elegante cameo di Rufus Wainwright), Zuma Beach Assassinio dilettante non giocano a fissare nell’ambra la realtà, ma ad osservarla da vicino, secondo una prospettiva di esigenza: “senza speranza e senza disperazione” per dirla à la Isak Dinesen.

E poi c’è il suono. La produzione, firmata dal talentuoso Amedeo Pace dei Blonde Redhead, è da ovazione. In piedi. Arrangiamenti soavi costruiti ed intrecciati con assoluta maestria attorno alla conversazione minimale tra piano (Michele Fedrigotti e Thomas Bartlett) e archi (il quartetto Balanescu Ensemble) puntualmente intercettata dal cantato di Bianconi (mai così liturgico). 

In assenza della bravissima Rachele Bastreghi (da riascoltare, a tal proposito, il suo di esordio solista: “Marie” del 2015), il contraltare vocale è affidato alle performance (straordinarie) di Kazu Makino dei Blonde Redhead (Go!), Hindi Zahra (Fàika Llìl Wnhàr) ed Eleanor Friedberger dei Fiery Furnaces (The Strength). Il risultato sono tre composizioni sublimi che seppur così diverse tra loro, per intensità e ritmo, conservano e rivendicano una comune provenienza: l’ovunque. Un “made in” privo di accenti identificativi e oneri doganali che impone, manuale alla mano, una riflessione aggiornata, e non intrappolata, sul termine “global music”. 

Considerazione a parte, infine, merita il meraviglioso singolo che ha preceduto di qualche giorno l’uscita dell’album: Certi uomini. Qui il livello lirico va oltre il concetto d’avanguardia. È pura cosmogonia (con echi di Freud, Pasolini e Battiato). Un dibattito sulla sceneggiatura del vivere (“Perché io vivo perché ho voglia di morire”) che ha quale sfondo ideale l’immagine iconografica del capolavoro di Gustave Courbet: “L’origine du monde”. Un pezzo destinato a durare “per sempre”. 

(2020, BMG)

01 Il bene
02 L’abisso
03 Andante
04 Go!
05 Fàika Llìl Wnhàr
06 Zuma Beach
07 The Strength
08 Certi uomini
09 Assassinio dilettante
10 Forever

IN BREVE: 4/5

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