In giro ormai da oltre una decina d’anni, dei Goat sappiamo ancora pochissimo. Chi sono? Quanti sono? Sono svedesi? Vengono davvero dal mitologico paesino di Korpilombolo? Quanti anni hanno? Che significato hanno le maschere che indossano? C’è qualcuno, fra loro, che abbiamo conosciuto o conosciamo già sotto altre vesti artistiche? Nulla di nulla, queste erano informazioni frammentarie o ignote ai tempi di “World Music”, il loro fantastico esordio del 2012, e lo sono ancora oggi che di dischi ne hanno inanellati un bel po’, da ultimo proprio questo Medicine. L’unica cosa che sappiamo, evidente e sotto gli occhi (e le orecchie) di tutti è ciò che riguarda la loro musica, che pesca in giro per il mondo ispirazioni e impulsi, un pastone lisergico in cui psichedelia, rock più classico, progressive, ritmiche africane, kraut, funk e suoni orientaleggianti s’incastrano fra loro fino al totale e definitivo stordimento dell’ascoltatore.
“Medicine” in questo non fa affatto differenza, continuando sulle tracce di “Oh Death”, il loro penultimo album pubblicato appena un anno fa. E lo fa non soltanto da un punto di vista strettamente sonoro, ma anche da quello concettuale, visto che di morte e caducità della vita continuano a essere intrisi i testi e le dinamiche espressive dei Goat. L’impostazione compositiva da jam è la costante del sound degli scandinavi, a partire dall’iniziale Impermanence And Death, in cui s’innesta un flauto mortifero, e proseguendo poi per TSOD e le sue corde asiatiche o Vakna che è un delirio in cui ciascuno, all’interno della band, sembra andare per i fatti suoi (ma ovviamente così non è). Se You’ll Be Alright paga pegno ai Black Sabbath ancestrali di “Planet Caravan”, la seguente Join The Resistance fa invece di più, perdendosi sul finale in un gorgo doomeggiante che trova proprio negli insegnamenti degli stessi Sabbath le proprie radici storiche.
La particolarità dei Goat più recenti, compresi questi di “Medicine”, sta nella ripresa del folk come perno su cui ruotano le loro composizioni, forse ancor più che la psichedelia in senso stretto. Raised By Hills e la conclusiva Tripping In The Graveyard fanno esattamente questo, mettono il folk al centro e gli montano tutt’intorno il resto del campionario di casa Goat. “Medicine” diventa così l’ulteriore accattivante tassello di una discografia che è fuori dal tempo perché suona bene oggi come avrebbe potuto farlo in ciascuno dei decenni scorsi, dagli anni ’60 in poi; ed è fuori dal mondo, perché non c’è alcuna connotazione geografica in ciò che propongono. È musica per il qui e l’ora quella dei Goat, così tanto da far perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
2023 | Rocket
IN BREVE: 3,5/5