Ciò che è venuto dopo, a parte gli svariati problemi di natura personale che hanno coinvolto a giro Armstrong e i suoi, è stata una progressiva perdita di contatto con ciò che i Green Day erano stati fino a quel momento, dapprima con “21st Century Breakdown” (2009) e poi soprattutto con la disastrosa trilogia “¡Uno!”, “¡Dos!”, “¡Tres!” (2012), una roba da requiem definitivo su qualsiasi velleità punk rock o presunta tale che i tre avessero mai avuto.
Diciamo che Revolution Radio, così, non vantava i favori del pronostico in quanto a possibilità di rilancio dei Green Day, quantomeno dal punto di vista artistico. Invece, nonostante non ci si trovi affatto al cospetto di chissà cosa e nonostante si tratti pur sempre della solita solfa trita e ritrita, quest’album ha il merito di non affossare ancora di più la band.
In che modo ci riesce? Con la semplicità, quella di un po’ di sana critica sociale come punk comanderebbe (vedi il singolo Bang Bang), che rende omaggio in più passaggi ai maestri Clash e Ramones senza nascondersi, che non ha paura di farsi persino folk (Ordinary World) o di dedicare più tempo del previsto a classiche ballatone americane (Outlaws, Trouble Times). C’è una sezione ritmica un po’ meno patinata che si addice allo scopo (Somewhere Now), qualche cenno agli esordi nineties della band e lo sguardo proteso verso un possibile futuro.
L’impressione è che forse, dopo quasi trent’anni di carriera, i Green Day abbiano finalmente deciso di smetterla di atteggiarsi a eterni adolescenti, arrendendosi all’inesorabile trascorrere del tempo: circostanza questa che, dal punto di vista della produzione discografica, potrebbe regalargli ancora qualche inatteso colpo in canna.
(2016, Reprise)
01 Somewhere Now
02 Bang Bang
03 Revolution Radio
04 Say Goodbye
05 Outlaws
06 Bouncing Off The Wall
07 Still Breathing
08 Youngblood
09 Too Dumb To Die
10 Troubled Times
11 Forever Now
12 Ordinary World
IN BREVE: 3/5