Da questo punto parte l’idea che muove Panopticon, probabilmente il disco più rappresentativo degli Isis. Di certo uno dei più influenti degli ultimi anni nell’universo post-metal. Due anni più tardi l’ottimo “Oceanic”, disco che aveva condotto la band verso l’altare della consacrazione, quest’ultima giunge definitivamente col compendio di post-hardcore, post-rock, psichedelia, progressive ed alternative-metal delle sette canzoni qui incluse. Un perfetto album di “crossover” (se col termine intendiamo l’originale significato di “fusione di stili”), in cui forme e gerghi del rock si compenetrano e si fondono, raggiungendo equilibri senza macchia, per creare un amalgama rinnovato nelle distensioni compositive. Aaron Turner e soci, partiti dalla sulfurea claustrofobia degli esordi doom à la Neurosis, adesso si dirigono verso i chiaroscuri universi dei Tool e agghindano numerosi passaggi strumentali con giri cari ai Mogwai, senza dimenticare le ascendenze pinkfloydiane, adesso più profonde. Il corredo genetico dà quindi vita ad una serie di quadri di eccellente fattura, che trovano nell’iniziale So Did We la più alta forma di espressione, informata su continue ascese e voli in picchiata (nonostante l’attacco possente), con flussi strumentali che simulano correnti marine sotterranee e vortici di venti impetuosi: tutta la coda finale di oltre quattro minuti è semplicemente un piccolo manuale di climax e anti-climax musicale.
Il merito principale degli Isis è quello di non indulgere in perenni reiterazioni tematico-melodiche, avvalendosi di uno sviluppo prettamente progressive che li libera così dai vizi di forma tipici del post-rock. Ma per far lievitare i brani ci vuole pur sempre del tempo ed i lunghi ma nel contempo suggestivi prologhi di In Fiction, Grinning Mouths e Wills Dissolve (questa bellissima nei suoi intrecci di chitarra) la dicono lunga. Le digressioni di Backlit quasi ammiccano al kraut-rock degli Amon Duul, per poi re-incanalarsi tra grumose aperture post-metal. E’ invece ai limiti del trasognato il ciclico agitarsi della meravigliosa Syndic Calls, anche qui perfetto svolgersi di sali-scendi che, a volte, rischia di sconfinare in qualcosa a metà tra Godspeed You! Black Emperor e l’ambient. Quasi a sottolineare l’amore dei nostri verso l’arte sonora dei Tool viene invitato il bassista di questi, Justin Chancellor, per tratteggiare le linee di basso di Altered Colours, la quale vibra sotto le schiarite d’un pallido sole mattutino per poi inabissarsi in acquatiche distese surreali(ste).
Le parti più dure contengono vigorose distorsioni di matrice noise-core, mentre Aaron Turner (di certo non un eccelso cantante) offre una prova vocale decisamente sopra le righe per tutta la durata del platter, delineando belle melodie che ben si coniugano con l’escapismo pindarico del tessuto strumentale. Anche le liriche, ispirate come detto dal progetto teorico del carcere panottico, riescono nel loro compito di creare un mondo ricco di necessità esistenziali, di ricerca umanista necessaria per gli uomini contemporanei, sempre più distratti ed indaffarati in “bel altro”. Fondamentale per l’incursione dell’universo post-core addentro le radure del post-rock (e a questo titolo si possono tranquillamente affiancare “Salvation” dei Cult Of Luna e non ultimo “The Eye Of Every Storm” dei Neurosis, pubblicati tutti nel 2004), “Panopticon” sfuma le linee di demarcazione che prima segregavano determinati modi d’intendere il rock alternativo e l’indie-metal e costituendo un corpus non soltanto musicale, ma anche “filosofico” che invita a riflettere sulla condizione umana dei nostri tempi, sempre più oppressa dal peso di un potere che ci osserva attimo dopo attimo.
(2004, Ipecac)
01 So Did We
02 Backlit
03 In Fiction
04 Wills Dissolve
05 Syndic Calls
06 Altered Colours
07 Grinning Mouths