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Kendrick Lamar – GNX

Qual è stato l’evento musicale dell’anno – estremamente ricco di eventi – che si appresta a concludersi? Per chi è più attempato, possibilmente il nuovo album dei Cure, dopo anni di attesa; per chi guarda al contenitore più che al contenuto, al meme più che alla musica, la fottuta “BRAT Summer” o qualche cacata su Sabrina Carpenter o Taylor Swift; per chi è interessato alla nuda cronaca più che alle note, il disgustoso disvelarsi delle attività extra-musicali di Sean “Puffy” Combs. Per tutti gli altri, crediamo certamente di poter affermare che il feud tra Kendrick Lamar e Drake prenda il primo premio: un botta e risposta multiplo fatto di brani dal contenuto estremamente esplicito, e non intendiamo che meritino il famoso “Parental Advisory”, ma che fanno accuse senza trattenere nulla, senza particolari doppi sensi o ambiguità, dissing nudo e crudo con grossi, grassi, gravi riferimenti alla vita privata di entrambi.

Tralasciando il discreto successo di ognuna delle tracce – eufemismo per dire che “Not Like Us” ha fracassato record su record nell’era dello streaming, e tutte le altre hanno comunque fatto risultati più che ragguardevoli – e pensando ai grandi feud della storia dell’hip hop come quello tra i NWA e Easy-E, o tra Nas e Jay-Z o soprattutto quello tra le due leggende Tupac Amaru Shakur e George Latore Wallace (in arte The Notorius B.I.G.), viene da pensare alle grandi sfide nella pallacanestro americana: Wilt Chamberlain contro Bill Russell, Magic Johnson contro Larry Bird, Tim Duncan contro Kevin Garnett. E una grande sfida, seppur mai avvenuta, viene da associare a Kendrick vs. Drake: quella tra Michael Jordan e Danny DeVito.

Un gigante musicale, che ha prodotto almeno un paio di album che di diritto andranno nel canone dei migliori di sempre, premio Pulitzer, fenomeno che fa stracciare le vesti alla larga parte di critica musicale mondiale, e poi il buon Drake, ad arrancare fra rime mancate e flow discutibile, qualificato da un perfetto commento su uno dei tanti social, spesso deleteri ma talvolta fonte di genio: “Drake got beat up so hard, he had to call the cops”, in riferimento alla denuncia fatta da quest’ultimo a K-Dot, ritenendo lesivi alcuni dei versi del feud. Sarebbe persino da ignorare al di fuori del contesto in cui il feud è esistito, se non fosse che il sentimento dal quale tutto ciò che è accaduto è scaturito informa largamente questo sesto album del ragazzo di Compton, inatteso cadeau quasi natalizio in un’annata funesta dal punto di vista degli accadimenti nel mondo, ma particolarmente ricca musicalmente parlando. A due anni di distanza da “Mr. Morale & The Big Steppers” (2022), Lamar pubblica un album che è come minutaggio il più breve della sua carriera, ma con quarantaquattro minuti estremamente densi, tesi, nei quali non si risparmia su nessuno, se stesso incluso. Il manifesto programmatico del Kendrick furioso lo mette all’inizio dell’album, con wacced out mural. Partendo dal murale a lui dedicato a Compton, recentemente vandalizzato, Kendrick si abbatte con furiosissimo sdegno su coloro che hanno provato ad ammorbarlo:

“I’ll kill ‘em all before I let ‘em kill my joy
I done been through it all, what you endure?
It used to be fuck that nigga, but now it’s plural
Fuck everybody, that’s on my body”

Qui Kendrick chiarisce sin da subito come stanno le cose, contraddicendo quanto detto in “I”, da “To Pimp A Butterfly” del 2015 (“I promised Dave I’d never use the phrase ‘fuck nigga’), e scaglia il primo pugno contro uno dei suoi idoli del passato, quel Lil Wayne che avrebbe voluto il posto di headliner allo show di fine primo tempo al Superbowl 2025, andato proprio a Kendrick:

“Used to bump Tha Carter III, I held my Rollie chain proud
Irony, I think my hard work let Lil Wayne down”

Che cazzo, un po’ di solidarietà sarebbe stata certamente d’uopo:

“Won the Super Bowl and Nas the only one congratulate me
All these niggas agitated, I’m just glad they showin’ they faces”

E ne ha anche per Snoop Dogg, colpevole di aver ripostato su Instagram l’agghiacciante “lavoro” di Drake, che ha usato l’intelligenza artificiale per generare un diss con le voci proprio di Snoop e Tupac contro Kendrick in “Taylor Made”; “I prayed it was the edibles”, cioè ho pregato che fosse dovuto all’aver mangiato degli edibles, biscotti pieni di marjuana ormai legale in California – Snoop con la consueta ironia ha confermato come sia proprio stata colpa degli edibles, un cenno, un tip of the hat al re. E ancora un gancio al mento a Drake (“Niggas from my city couldn’t entertain old boy”) e in generale un attacco al mondo hip hop per intero, fatto di personaggi molto lontani dall’autenticità, decadenti e ipocriti (“Fuck your hip hop, I watched the party just die”).

Il concetto è semplice, e va oltre qualunque feud: Kendrick Lamar Duckworth merita tutto quello che ha ottenuto, lo ripete una trentina di volte in man at the garden, mettendo in primo piano la purezza delle sue intenzioni e la rabbia che ancora informa le sue azioni (“Dangerously, nothin’ changed with me, still got pain in me”). Ma nelle sue parole, a dispetto delle apparenze, non è tanto il narcisismo ad emergere come concetto chiave, il punto non è tanto che Kendrick sia il migliore di sempre, pur se esplicitato con quasi queste esatte parole (“Tell me why you think you deserve the greatest of all time, motherfucker”), ma il far valere i motivi per cui il feud con Drake lo ha portato a una furia verbale incontrollabile, debordante: l’etica di ciò che Lamar fa, il significato della sua carriera, l’utilizzare il successo non tanto per ottenere potere e godersi i vantaggi, ma per dare indietro alla comunità, sia con le parole che con i fatti. Per questo diventa intollerabile una qualunque forma di paragone con un personaggio come Drake (motivo dal quale è formalmente scaturito il feud, per un verso del pop rapper canadese nel quale inseriva se stesso, Kendrick e J Cole in un’ipotetica trinità di “migliori”). E in reincarnated si spinge verso una metafora ardita, una storia di tre anime di artisti afroamericani, i primi due – con estrema probabilità, ma non certezza – John Lee Hooker e Billie Holiday, due artisti afroamericani straordinari i cui comportamenti negativi e/o autodistruttivi (nel primo caso l’avidità, nel secondo l’abuso di sostanze) sono stati di insegnamento per il terzo, proprio Lamar:

“I’m yelling, “Father, did I finally get it right?” Everything I did was selfless
I spoke freely, when the people needed me, I helped them”

Il concetto, la metafora che sta dietro questi versi, non è forse strettamente da interpretarsi in relazione a Kendrick, né persino alla comunità afroamericana, ma rispetto alla bontà delle intenzioni rispetto alle proprie azioni, al prendere ad esempio il passato ma evitandone le trappole e gli errori. Il campionamento nel brano di “Made Niggaz” di Tupac (in netto contrasto con l’uso dell’IA da parte di Drake) è un punto molto importante che informa l’intero GNX, inerente alle sonorità dell’album: un album estremamente influenzato dai suoni dell’hip hop californiano e dal G-Funk, con una lisciata pop da parte di Jack Antonoff (produttore di Taylor Swift fra gli altri) e una manciata di ospiti che, tolta SZA (che fa un lavoro come sempre eccellente nella conclusiva gloria e in luther, i due pezzi che spezzano il serratissimo ritmo), sono giovani locali come Dody6, Hitta J3, Lefty Gunplay e le apparizioni multiple di Deya Barrera, cantante mariachi losangelina – ancora una volta nella logica di dare qualcosa indietro, di essere una forza positiva.

Non continueremo a analizzare i testi, anche perché ce ne sarebbe di roba da dire, e non vogliamo che questa recensione diventi una rottura di coglioni come quando la professoressa di italiano con i baffi li triturava con “I Promessi Sposi”; ma è giusto dire che, se la musica ha comunque una sopraffina ricerca alle spalle e un ennesimo, diverso, eclettico excursus nella storia della musica afroamericana, filtrata, rinnovata e resa totalmente personale, qui come in Bob Dylan, il segreto sta nelle parole. Un fuoriclasse contro tutti, irato dalla miseria artistica e soprattutto morale che vede intorno a sé, che fa sul serio ma ha anche la voglia di alleggerire (su tutte, squabble up, al limite della goliardia) e che ha un controllo di ciò che fa spaventoso. Leggetelo e ascoltatelo da voi, vi porterete avanti quando la professoressa di inglese con l’occhio strabico lo spiegherà ai vostri figli e ve lo troverete tra i loro compiti per casa.

2024 | Interscope/pgLang

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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