L’ambizioso Ultraviolence non è fortunatamente nulla di tutto ciò, anche se – lo spiegheremo dopo – rimane nettamente inferiore rispetto a “Born To Die”. La cosa più apprezzabile di “Ultraviolence” è che conferisce finalmente una connotazione artistica ben precisa alla ragazza statunitense, che sceglie di stare dalla parte giusta. Nessuna concessione al pop d’alta classifica (e di bassa qualità) che sta ultimamente sputtanando fin troppe discografie di rispettabili e insospettabili artisti: esemplificativa in tal senso è la scelta del primo singolo, la coraggiosa e per niente radiofonica West Coast, che cresce ascolto dopo ascolto.
Per la produzione del disco Lana Del Rey si è affidata alle sapienti ed illustri mani di Dan Auerbach, leader dei Black Keys. Scelta che regala un suono coerente e asciutto all’album, lontano anni luce da quel meraviglioso calderone di generi e suoni che era “Born To Die”. In “Ultraviolence” non c’è invece troppo spazio per le divagazioni di stile: tutte le canzoni sono collegate da un fortissimo filo conduttore, tutto sommato originale nella sua compattezza, vista la quantità delle influenze che lo compongono. Blues, garage, dream pop e sonorità 60’s come se piovessero: Auerbach ha preso tutto questo e l’ha messo in un frullatore. Il beverone frutto di questo risultato l’ha chiamato narco-swing, termine appropriatissimo dove a preoccupare è la prima parte.
Magari i critici stavolta saranno contenti (a più riprese sembra che l’obiettivo principale di Lana sia stato compiacerli) ma – per quanto eccellente come esercizio di stile – il risultato è quello di avere per l’appunto narcotizzato l’album, distante dalle esplosioni naif di “Born To Die”: a questo disco, in poche parole, manca il cuore dell’illustre predecessore.
Ma, seppur sotto oppioidi (musicalmente parlando, s’intende), la qualità delle canzoni della Del Rey emerge anche tra i rigidi schemi sonori di Auerbach: Cruel World è il sorprendente e riuscito intro rock dell’album, mentre la lenta ed erotica Ultraviolence (impreziosita da un bridge di rara bellezza) è la degna title-track di questo lavoro in studio. La terza traccia è la soporifera ed inutile Shades Of Cool (dove Lana cade di nuovo in inutili cliché musicali da femme fatale anni ‘50), che fa intuire come nell’album sia presente una pressoché continua alternanza tra brani che convincono (il power pop di Money Power Glory, la schizofrenica Fucked My Way Up To The Top) e altri assolutamente insufficienti (la lagnosissima Old Money e Pretty When You Cry, che paga pesantemente dazio a “Hotel California” degli Eagles).
Il bello però deve fortunatamente ancora venire. Ad “Ultraviolence” mancherà pure un capolavoro come “Ride”, ma la statunitense ci regala tre brani dal valore assoluto, che confermano il suo talento cristallino: Brooklyn Baby è una catartica ballad che avrebbe dovuto vedere Lou Reed come protagonista (il destino ha voluto diversamente), la commovente Sad Girl (migliore brano del disco) si candida ad inno generazionale per migliaia di ragazze hipster.
Qualcuno dovrà poi spiegarci perché la meravigliosa e delicata Black Beauty (autentica gemma dream pop) sia stata relegata alle varie edizioni deluxe dell’album, che in base alla tipologia presentano 3 o 4 canzoni in più rispetto alla versione standard. Al netto di tutte le sacrosante critiche il risultato di “Ultraviolence” rimane dunque estremamente positivo: un secondo album forse poco spontaneo, ma assolutamente coraggioso e ben riuscito.
(2014, Polydor)
01 Cruel World
02 Ultraviolence
03 Shades Of Cool
04 Brooklyn Baby
05 West Coast
06 Sad Girl
07 Pretty When You Cry
08 Money Power Glory
09 Fucked My Way Up to the Top
10 Old Money
11 The Other Woman
12 Black Beauty (bonus track)
13 Guns And Roses (bonus track)
14 Florida Kilos (bonus track)
15 Flipside (bonus track)
IN BREVE: 3/5