Due dischi pazzeschi e fondamentali come “Blood Mountain” (2006) e “Crack The Skye” (2009) rimangono in ogni caso le punte di diamante di una band che ha successivamente espresso la tendenza a voler perfezionare il proprio sound, senza abbracciare il rischio di sperimentare in una direzione che non sia, come spesso accade, quella commerciale e di apertura a nuovo pubblico. Emperor Of Sand, che segna il ritorno dei Mastodon alla forma del concept album, prosegue infatti l’attitudine alla stabilizzazione sonora chiaramente manifestata già dal precedente “Once More ‘Round The Sun”, ma deviando in alcune tracce verso un ascolto semplificato come nella radio-hit Show Yourself, di gran lunga il brano più orecchiabile mai prodotto dai nostri, e nel refrain di Steambreather, in cui Brann Dailor dà sfoggio della morbidezza del suo timbro.
Il disco è tendenzialmente quadrato, l’opener Sultan’s Curse presenta tutte le caratteristiche che permettono a un pezzo del quartetto americano di essere riconosciuto al primo ascolto: il riffing cavalcante, la sezione ritmica che amalgama il complesso di suoni, l’utilizzo di tutte e tre le forme vocali (ognuna col suo stile ben definito). I brani si susseguono con forse troppa semplicità e immediatezza; sebbene l’impatto sonoro e il livello qualitativo sia mediamente elevato, si fa sentire dopo qualche ascolto la mancanza di quell’elemento che distingue i buoni LP dai veri e propri capolavori.
Pare che la tendenza dei Mastodon attuali sia proprio questa: evitare di rovinare una macchina perfetta che sforna prodotti di qualità a cadenza regolare, non osare più del necessario continuando a incontrare i favori di critica e grande pubblico ma fuggendo ancora una volta l’appuntamento con la storia. È innegabile quanto il combo americano sia fondamentale per il movimento attuale, anche in ottica di espansione verso un audience non propriamente estrema; ma tra 30 anni è più comprensibile che ci si ricorderà di un lavoro visionario e profondo come “Crack The Skye” piuttosto che di un preciso e pulito “Emperor Of Sand”.
Nonostante ciò, e come già espresso poco sopra, il prodotto è estremamente godibile. È un crescendo di intensità e qualità, che presenta i suoi pezzi migliori nella seconda metà. Il trittico Word To The Wise, Ancient Kingdom e Clandestiny mostra elementi di epicità comuni proposti sotto forma di anthem, con bridge e refrain corali che contrastano magnificamente con strofe martellanti. Ma sono i tre brani conclusivi che con buona probabilità lasceranno l’eredità maggiore, anche (e questo non è un caso) per i percepibili rimandi ai primi dischi, come nel caso di Andromeda e Scorpion Breath. La conclusiva Jaguar God rispetta la tendenza dei Mastodon di concludere le loro opere con una brano lungo e complesso, che riesce nel suo intento di infiocchettare il lavoro e consegnarlo al suo pubblico.
Ennesima prova superata, ennesima prestazione che si erge tra le più importanti, ma forse non fondamentali, del suo anno. I Mastodon sono una band di fenomeni, che fa della sua forza l’estrema solidità di tutti e quattro i componenti; spingersi nuovamente più in là, slegandosi dallo standard che hanno creato con le ultime due uscite, potrebbe essere la soluzione per allontanare dal proprio futuro l’omologazione che non dovrebbe mai colpire chi è capace, come loro, di creare musica in grado di definire a suo modo un periodo storico.
(2017, Reprise)
01 Sultan’s Curse
02 Show Yourself
03 Precious Stones
04 Steambreather
05 Roots Remain
06 Word To The Wise
07 Ancient Kingdom
08 Clandestiny
09 Andromeda
10 Scorpion Breath
11 Jaguar God
IN BREVE: 3,5/5