L’immaginario rappresentato dai Molchat Doma con la loro musica è stato una delle cose più interessanti e affascinanti venute fuori in questi anni. Per loro è stata una semplice − o meglio, naturale − trasposizione di ciò che avevano sempre potuto vedere aprendo le finestre di casa, scendendo giù in strada o accendendo la TV nella loro Minsk; per il resto del mondo, invece, è stato come affacciarsi su una realtà lontana tanto dal punto di vista geografico quanto temporale, un elettrizzante varco verso una realtà parallela in cui gli anni ’80 non sono mai finiti. Il brutalismo caratteristico dell’Unione Sovietica, il (post) punk che s’oppone al regime, la fuga dal paese natio per approdare nella più grande democrazia del mondo (gli Stati Uniti, a detta ovviamente degli stessi americani) e tre dischi che li hanno proiettati in poco tempo in Occidente e nelle line-up dei festival fighi, tra new wave, synth a perdifiato, post punk e chi più ne ha più ne metta.
Per quanto possibile e nei limiti di uno stile strutturalmente glaciale, in Belaya Polosa i Molchat Doma inseriscono qua e là qualche pulsazione più calda e umana, che fa in un certo senso il paio con la scelta della colorazione dell’artwork, che lascia il bianco, il nero, il grigio e le sfumature di blu usate finora per attestarsi su un post atomico giallo/arancione. Ed è così che Kolesom, la title track o Chernye Cvety girano tutt’intorno ai Depeche Mode più notturni, una fonte d’ispirazione mai nascosta dal trio bielorusso ma mai così palese e tangibile come in questo caso. E stanno tutti qui i passi dei Molchat Doma verso una distensione delle asperità degli esordi, complice anche una produzione decisamente più luminosa e pulita rispetto al passato più e meno recente (ma già nel precedente “Monument” del 2020 aveva iniziato a farsi sentire), che si srotola al massimo del suo splendore nei sei minuti dell’avvolgente singolo Son.
Giunti al quarto disco, l’effetto sorpresa della prima ora è un po’ scemato e i Molchat Doma sono adesso con i loro esotismi post sovietici una realtà ben consolidata del loro universo di riferimento. Questo li aiuta e li aiuterà senza dubbio a far crescere ancora la propria fanbase, ma al tempo stesso li pone davanti alla fondamentale scelta sul come proseguire con la loro produzione discografica. Il rischio, neanche troppo lontano, è quello di non riuscire a emergere dagli stessi stereotipi sonori ed estetici che hanno contribuito a far uscire il loro nome fuori dai confini della Bielorussia, e il modo in cui affronteranno questa “challenge” dirà tutto su chi sono e su cosa potranno essere i Molchat Doma. Nel frattempo, un altro godibile tassello del loro mosaico brutalista è qui per gelarci nuovamente le ossa e l’anima.
2024 | Sacred Bones
IN BREVE: 3,5/5